panor ridotta
“LA CROCE NON TI OPPRIMA;
SE IL SUO PESO FA OSCILLARE,
LA SUA POTENZA SOLLEVA”:
LA TESTIMONIANZA DI CHIARA BADANO



Ho voluto mettere nel titolo una frase di Padre Pio, perché ben si adatta ad introdurre l’esemplchiara_badano.jpgare vita cristiana della Serva di Dio che ho scelto per il secondo articolo della nostra rubrica.

Chiara Badano, nata a Savona il 29 ottobre 1971, sembrava davvero destinata ad un’esistenza ordinaria: la classica brava ragazza, proveniente da famiglia unita e religiosa, per di più carina, simpatica, intelligente, socievole e sportiva. 

Certo, che in lei c’erano buoni semi si vide subito: a nove anni entrò a far parte dei “Gen”, la componente giovanile del movimento dei “Focolari” guidato da Chiara Lubich. Questa esperienza si rivelò decisiva per la sua maturazione spirituale. Fin da giovanissima, la Serva di Dio mostrò presto un ardente amore verso Gesù e la Madonna, nutrì la propria fede attraverso la preghiera, la ricezione assidua dei Sacramenti, la lettura e meditazione delle Sacre Scritture. Poiché non era una che diceva solo “Signore, Signore”, a tutto questo si aggiungeva la sua facilità nel fare amicizie, la sensibilità e l’altruismo che mostrava verso le persone bisognose di assistenza e conforto.

Tutto   ciò faceva sicuramente di lei un’ottima cristiana, ma molto probabilmente non sarebbe stato sufficiente per fare di Chiara una candidata alla beatificazione se nella sua vita non fosse successo l’imprevedibile: era il 1988 e mentre giocava a tennis avvertì un forte dolore alla spalla. I referti medici dopo poco tempo furono impietosi. Di fronte al male più temuto del nostro tempo, una ragazza così giovane aveva due strade: sprofondare negli abissi della disperazione, o salire lungo la via della Luce: scelse la seconda strada, avvicinandosi ancora di più a quello che in fin dei conti era da sempre stato il suo miglior amico: Gesù.
Il decorso clinico della malattia fu quello ordinario: il solito calvario di chemioterapia con annessi effetti collaterali, i dolori, le operazioni, le cure inutili. Ma l’atteggiamento di Chiara di fronte a tutto ciò non fu quello ordinario. Trattandosi di un tumore osseo, era particolarmente doloroso, eppure la ragazza rifiutò la morfina. Voleva soffrire per amor di Cristo e nello stesso tempo rimanere lucida fino alla fine.
Durante la sua malattia, in una lettera a Chiara Lubich, chiese un consiglio per assumere un nome nuovo. La Lubich rispose: “’Chiara Luce’ è il nome che ho pensato per te. Ti piace? E’ la luce dell’ideale che vince il mondo” (M. Zanzucchi, «Io ho tutto», Roma, Città Nuova, 2000, pag. 43).
I “fatti” in senso stretto della vita di Chiara sono questi, non c’è molto da aggiungere, se non che accettava il dolore non per stoicismo, né per fatalismo, ma semplicemente per la sua grande fede. Diceva: “Se dovessi scegliere tra camminare o andare in Paradiso, sceglierei senza esitazione: andare in Paradiso. Ormai mi interessa solo quello... Sto attenta a dirlo, però, perché magari pensano che voglio andarmene per non soffrire più. Ma non è così. Io voglio andare da Gesù” (op. cit., pag. 37).
Dunque questa “gen” attendeva la morte non come fine delle sue sofferenze, che pure erano atroci, ma come balzo verso la Vita vera. Rendendosi conto che il grande momento si avvicinava sempre più, vi si preparò come ad uno sposalizio. Lei stessa preparò nei minimi dettagli il suo funerale (che chiamava “festa di nozze”): indicò come confezionare l’abito bianco con la cintura rossa, scelse i canti e le letture.
Lo Sposo le venne finalmente incontro all’alba del giorno della Risurrezione, domenica 7 ottobre 1990. Le sue ultime parole, rivolte alla madre, furono: “Ciao. Sii felice, perché io lo sono”. (op. cit., pag. 46). Come ultimo atto d’amore terreno, le sue cornee furono espiantate ed oggi due giovani vedono grazie a lei. A Sassello, piccolo paese della provincia savonese in cui Chiara visse e morì, la sua dipartita fu accolta da tutti con commozione, ma anche con la consapevolezza che in casi come questi l’umana tristezza deve lasciar posto alla gioia cristiana. Per iniziativa del Vescovo di Acqui Terme, Monsignor Livio Maritano, si è aperto il processo di Beatificazione e Chiara Luce è stata dichiarata Serva di Dio.
Cosa può dire una testimonianza come questa all’uomo di oggi? Innanzitutto c’è da sottolineare l’andare contro corrente rispetto alla mentalità dominante: oggi gli uomini, anche molti cristiani, hanno paura del dolore, non lo accettano, si scoraggiano facilmente, talvolta cercano le peggiori scorciatoie per evitarlo (droga, suicidio). Spesso, anche chi accetta la sofferenza, lo fa per fatalismo, magari pensando dentro di sé che in fondo Dio è ingiusto. Siamo davvero lontani anni-luce dall’atteggiamento di Chiara. La sua esperienza, dolorosa ma luminosissima, ricorda a tutti, anche a quei cristiani che troppo facilmente si conformano alla mentalità del mondo, il valore salvifico della Croce. La sua genuina speranza nel Paradiso sveglia la coscienza di tutti coloro che si focalizzano esclusivamente sulle cose terrene, dimenticando che il cristiano crede innanzi tutto in una Vita più autentica e migliore di quella di quaggiù.
Ma c’è un’altra considerazione da fare e nasce anche dal paragone tra questa “testimone del nostro tempo” e l’ingegner Uberto Mori, scelto la volta scorsa per la nostra rubrica. Confrontando le due biografie, quella di Chiara appare molto povera, sembra davvero che questa ragazza non abbia fatto niente. Ma le strade della santità sono tante e diverse, anche se convergono tutte verso un’unica meta. Il Vangelo su questo punto è chiaro: saremo giudicati non tanto in base al “fare”, quanto in base all’”amare”. Ci possono aiutare qui le sensazioni di un amico focolarino, quando si reca a trovare la ragazza malata: “Ci sentiamo proiettati, senza averne alcun merito, nella splendida avventura dell’amore di Dio. Eppure Chiara non dice frasi straordinarie, non scrive pagine e pagine di diario. Semplicemente ama.” (op. cit., pag. 35). Dunque Chiara Luce ha semplicemente amato, per il resto non ha fatto niente, o meglio, ha fatto tutto.
Emidio Cancelli

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