
IL DOMANI DEI CREDENTI-V Domenica di Pasqua
Carissimi fratelli e sorelle,
il Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua ci riporta all’interno della sala nella quale i discepoli hanno cenato con Gesù prima della morte, dove lo hanno incontrato risorto, da cui sono usciti, mossi dallo Spirito, per portare il Vangelo a tutti. Leggiamo, infatti, i versetti iniziali del capitolo 14 di Giovanni. Questo Evangelista, a differenza degli altri, ci racconta quella che chiamiamo l’ultima cena senza i particolari del rituale della cena pasquale ebraica, ma piuttosto con i tratti di una vera e propria cena di addio, avviata dal gesto iniziale della lavanda dei piedi (cap. 13) e che si conclude dopo un lungo discorso con una intensa preghiera per i discepoli (cap. 17).
Questa corposa sezione del Vangelo inizia così: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (13,1). E termina con questa espressione: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26).
Le parole di Gesù circa il suo passare al Padre e le consegne per i discepoli ci arrivano, organizzate appunto come in un lungo discorso, così come le prime comunità le hanno meditate e approfondite, in quel “sovrappiù di conoscenza” dovuto alla comunione profonda col Maestro (dimorare uno nell’altro) e alla crescente acquisizione di uno stile con Lui condiviso di dono e servizio per gli altri (il comandamento definitivo). Parole da accogliere, dunque, come le cose che stanno più a cuore a Gesù, e con l’atteggiamento del discepolo da lui amato di una confidente intimità (13,25).
Un Gesù, profondamento turbato, aveva annunciato il tradimento di Giuda e, dopo la sua uscita dalla sala, rivelerà ai discepoli di avere ancora poco tempo da stare con loro e di andare in un luogo dove loro non possono seguirlo. Per questo gli confida il senso profondo di ciò che lui sta vivendo (verità), la sua vita e la sua via: come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri. Parole che risentiremo più avanti in una forma simile: “Come il Padre mi ha amato, così anch'io ho amato voi; dimorate nel mio amore” (15,9).
A questo punto tre interventi dei discepoli (noi oggi ne leggiamo solo due) : Pietro che vuole sapere del luogo, promettendo una fedeltà che non sarà capace di mantenere; Tommaso, che aveva dichiarato di voler andare a morire con Gesù, ma che non conosce la via per arrivarci; e Filippo cercatore sincero di Dio, di quel Dio che però non riesce a intravedere nel volto di quell’uomo che gli aveva appena lavato i piedi.
Un Gesù, non più turbato, invita i suoi stessi discepoli, dei quali conosce le debolezze, a non aver paura: il dono di una comunione piena con Dio (espressa con l’immagine della casa e le dimore, la casa è fatta per dimorarvi, e Dio e l’uomo sono casa pronta per la dimora dell’uno nell’altro), questo dono è alla loro portata, offerto dal maestro che dà la sua vita per loro. Credete in me! Ossia, accettare una volta per tutte e senza ripensamenti, che Gesù che muore sulla croce è la rivelazione più alta dell’amore del Padre, che in quel modo di amare fine alla fine c’è il senso più profondo dell’esistenza, è tracciato il cammino del credente di ogni tempo.
Veniamo a noi e alla quarantena di questi giorni. Forse anche noi come Pietro, Tommaso e Filippo, facciamo i conti con le nostre infedeltà, con il percorrere un cammino che non sempre coincide con quello del Maestro, religiosi abbastanza, ma privi di quella fede che sa farci amare al modo di Gesù…
Allora, chiediamoci: vogliamo al più presto tornare a incancrenirci nell’esprimere la nostra religiosità attraverso forme, che forse neanche Gesù ha mai immaginato che potessero esistere o essere autentiche manifestazioni di fede, o vogliamo compiere con il Maestro l’esodo verso l’amore pieno?
Questo è il domani dei credenti, non il cimitero: desiderare e provare a vivere l’amore senza misura, quello ‘proprio’ di Dio, che ci consente di fare quelle cose meravigliose, che Gesù stesso prevedeva addirittura più grandi di quelle fatte da lui.
Fra’ Mario

FUORI DAL RECINTO
Carissimi fratelli e sorelle,
da circa 60 anni in questa quarta domenica di Pasqua nella Chiesa Cattolica si celebra la giornata mondiale di preghiera per coloro che sono chiamati ad assumere il ministero di pastori, e nella Liturgia si proclama la parabola del Pastore bello (o buono, termini ai quali io annetto anche il valore di autentico) al capitolo 10 di Giovanni.
In tutti questi anni, tuttavia, si è passati da una concezione a ‘senso unico’ che faceva coincidere la “vocazione” con la “chiamata al sacerdozio”, o, tuttalpiù, alla vita religiosa, con il ‘sacerdote’ unico protagonista della missione della Chiesa (certamente una missione intesa prevalentemente come amministrazione di sacramenti), ad una visione sempre più ampia: ogni battezzato è chiamato a diventare discepolo e partecipare in modo attivo alla missione della Chiesa nel mondo (EG 120).
Occorre, dunque, da subito abbandonare certe affermazioni tipiche del passato e alquanto retoriche, come: Gesù è il Pastore bello da seguire, un pastore per essere buono deve essere come Gesù, una pecora per essere buona deve obbedire al pastore… per riflettere su cosa volesse effettivamente comunicarci Gesù riguardo alla relazione tra Dio e coloro che Egli cerca e che a loro volta lo cercano, ricorrendo all’uso di una immagine tipica del suo ambiente e tanto diffusa nelle Scritture: il pastore e il gregge.
Dopo la predicazione in Galilea culminata con il discorso del pane di vita (cap. 6), Giovanni ci racconta un pellegrinaggio di Gesù al Tempio di Gerusalemme per la festa della capanne, durante il quale il contrasto con sacerdoti, scribi e farisei si fa talmente acceso che essi provano a lapidarlo e Gesù è costretto a fuggire dal Tempio (Gv 8,59). Mentre si allontana incontra un cieco dalla nascita e lo guarisce. Riincontrandolo, dopo che anche lui era stato cacciato dal tempio, Gesù definirà i farisei come guide ceche, abitate dal peccato di non saper riconoscere in Gesù l’inviato del Padre.
Credo che anche noi, come coloro che erano presenti, ci saremmo chiesti: ma a chi bisogna dar retta di questi due? Agli scribi e farisei arroccati all’interno del recinto sacro del Tempio, guardiani inflessibili della legge e delle sue tradizioni, o all’espulso dal recinto che chiede alle persone di uscirne con lui ?
Un bel dilemma, diciamo oggi, per i cercatori di Dio sempre desiderosi di intraprendere i percorsi liberanti della fede e, tuttavia, sempre nel pericolo di rimanere chiusi nei recinti sacri delle religioni. Gesù stesso offre una risposta raccontando una parabola enigmatica, da decifrare immagine per immagine, assumendosi la responsabilità di decidere.
Al solito, mi assumo la responsabilità di fermarmi ad alcuni aspetti, a ciascuno poi il compito di approfondire e condividere i tanti altri.
Un pastore autentico passa dalla porta, in Ap 3,20 si dirà: bussa alla porta, e lascia liberi di aprire, a differenza dei ladri e briganti che stanno dentro al recinto illegittimamente e spadroneggiano sulle pecore…
Un pastore autentico non si limita a fare il guardiano e a tenere le pecore chiuse dentro il recinto, ma fa vivere alle pecore l’esperienza dell’esodo e della liberazione, attraverso percorsi fraterni (conoscersi per nome e riconoscersi dalla voce, non come tra estranei).
Un pastore autentico cammina davanti, ci mette le faccia e il cuore, si alza fino a donare la vita sulla croce, si abbassa fino a lavare i piedi e chiede: capite quello che ho fatto per voi? Adesso fatelo anche voi gli uni per gli altri. E le pecore lo seguono.
Un pastore autentico è una porta sempre aperta: per trovare in lui rifugio e ristoro, non per rimanere li a crogiolarsi, ma sempre per essere sospinti fuori verso nuovi pascoli.
Un pastore autentico appassiona, coinvolge, comunica vita, immette energia, fa sognare e desiderare quella dimensione propria di Dio, senza ambire alla quale spesso si finisce per rimanere soltanto dei mediocri, se non dei delusi perennemente insoddisfatti, che è la pienezza, l’abbondanza, che uno pregusta e vive già in quelle situazione alle quali arriva con un cuore libero e ben orientato dalle parole del Maestro.
I seguaci più stretti di Gesù furono letteralmente conquistati dagli insegnamenti del loro pastore estromesso dal recinto, e dopo il suo esodo pasquale, quando il suo Spirito frantumò i loro dubbi e paure, saltarono a loro volta tutti i recinti del cenacolo, del tempio, della giudea e del giudaismo, per parteciparli a tutti gli uomini… Gli Apostoli!
I loro successori smisero di chiamarsi così, e presero il nome dei funzionari che nel mondo greco svolgevano il ruolo di ispettori, controllori, guardiani delle persone a loro soggette: gli “episcopi”.
Evitando polemiche sterili e desuete verso istituzioni o persone con ruoli di responsabilità, potremmo leggere questi mesi della pandemia come una porta aperta per uscire dai recinti degli usi e costumi tradizionali, o anche di abitudini recenti, e andare verso i nuovi pascoli che il Dio Pastore prepara per coloro che lo ascoltano e seguono?
Fra’ Mario
Cari fratelli e sorelle, a tutti voi che leggerete o ascolterete questa riflessione, ancora una volta indico tre domande nella speranza che, prima o poi, si abbia la possibilità e la voglia di scambiarsi le proprie idee per la crescita della nostra comunità.
- Quali prospettive apre nella tua vita una fede concepita come un uscire dietro a Gesù da vecchi e nuovi recinti, interiori o istituzionali?
- Come valuti il confronto in atto in questi giorni tra CEI e Stato, e delle varie anime cattoliche tra di loro, per una ripresa celere delle celebrazioni liturgiche all’interno delle chiese, alla luce della parabola del pastore, raccontata da Gesù fuori del recinto del Tempio?
- Ai nostri giorni uno dei più bei frutti del Concilio: la partecipazione dei laici alla missione della Chiesa, rischia di rimanere ingabbiato in recinti costituiti da realtà ecclesiali ormai fossilizzatesi nell’unicità della loro esperienza e nella ripetitività di parole e gesti eseguiti a comando. Cosa rimarrà al termine della stagione dei movimenti e quale Chiesa susciterà lo Spirito per il mondo di domani?

UNA CHIESA STILE “EMMAUS”
Carissimi fratelli e sorelle,
al centro della Liturgia della Parola di questa terza domenica di Pasqua c’è uno dei racconti più belli del Vangelo di Luca, una specie di parabola, consentitemi di chiamarla così visto che siamo invitati a immedesimarci nei protagonisti e a confrontarci con le loro reazioni: l’esperienza del Risorto dei discepoli in cammino verso Emmaus.
Quando il Vangelo di Luca è stato redatto in maniera definitiva erano passati 40/50 anni dalla Pasqua di Gesù, gli Apostoli erano già quasi del tutto scomparsi e le comunità da loro fondate erano guidate dai loro successori e composte da cristiani che neanche li avevano conosciuti. Come mantenere, allora, un contatto vivo con il Signore dopo la scomparsa dei testimoni diretti? Come il Signore continuava a farsi presente in mezzo ai credenti? Quali cambi di passo in comunità che avevano sperato nel ritorno imminente del Signore e che ora, dopo la delusione, in mezzo a tante difficoltà, diventavano consapevoli di dover assicurare il suo costante accompagnamento alle nuove generazioni di credenti?
Per offrire delle risposte a questi problemi vitali Luca crea questo bellissimo racconto in cui convergono il senso della missione di Gesù e le prospettive di una chiesa, chiamata a continuarla nella storia.
Vorrei, come al solito, sottolineare alcuni elementi che mi sembrano di particolare attualità.
Mentre Cleopa e un suo amico fanno i primi passi ‘in uscita’ da Gerusalemme (cominciando da… dirà il Vangelo qualche versetto dopo) conversano e discutono. A questa conversazione si unisce una terza persona che ascolta i loro sfoghi e raccoglie la loro amarezza per il fallimento del profeta Gesù, la cui tomba quella mattina è stata trovata inspiegabilmente vuota da alcune donne e da Pietro, che Lui però non lo hanno (ri)visto. Ai due delusi il nuovo compagno di viaggio infiamma il cuore spiegando le Sacre Scritture.
Ed ecco la prima grande indicazione: il Risorto è autenticamente presente in mezzo ad una comunità che ascolta le scritture, e che dialoga e anche discute sul senso di esse e la loro attualizzazione.
Che fatica che stiamo facendo, fratelli e sorelle, per essere una comunità che mette al centro la Parola, che si riunisce per ascoltarla e interrogarla, per ricevere spiegazioni e per condividere risonanze interiori (e non si limita a valutare la qualità di un’omelia – il cui gradimento varia in base alla corrispondenza ai propri gusti - o verificarne la durata). Che disastro una Chiesa dove a partire magari proprio dai suoi ministri specifici (presbiteri, diaconi, lettori, catechisti…) c’è un vuoto di Parola ascoltata, studiata, discussa, applicata, vissuta sempre più. Che disastro una comunità di “incompetenti” del Vangelo, privi cioè di quel dialogo con il Risorto attraverso le Scritture e di quel confronto con i fratelli, senza il quale la vita nuova nella fede rischia di ridursi a sentimentalismo, intimismo, emozionalismo… determinando in qualche modo già così la fine del ‘credente comunitario’.
Per la piacevolezza e la qualità della conversazione Cleopa e il suo amico invitano, data la prossimità della notte, il passante misterioso a rimanere con loro e mentre cenano insieme un gesto particolare rivela che davvero il Risorto è venuto tra loro: il pane spezzato, laddove spezzato significa anche condiviso e mangiato: prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro (che, come nel racconto dell’ultima cena, sottintende il mangiare). E dopo aver mangiato si “aprirono loro gli occhi”…
E quanta fatica ancora stiamo facendo, fratelli e sorelle, per essere una comunità che mette al centro il pane mangiato insieme, il pane di Dio e pane della fraternità, spezzato e condiviso (quanto sono lontane le precisissime ostie preconfezionate dal poter essere segno di tutto ciò e non solo della fede nella presenza di Dio). Lascio la parola ad un grande teologo che già negli anni ’60 scriveva: “Se il Signore lega la sua presenza alla figura del pane, il senso di un simile procedimento è assolutamente chiaro: anche questo pane santo in primo luogo non è fatto per essere guardato, ma per essere mangiato. Vuol dire che Egli è restato non per essere adorato, ma soprattutto per essere ricevuto. Ancor più dei tabernacoli di pietra, a lui interessano i tabernacoli viventi, gli interessa avere uomini che siano colmi del suo Spirito e che siano pronti a rendere presente lo Spirito e la realtà di Gesù Cristo in questo mondo” (Joseph Ratzinger).
E, in conclusione, vorrei rileggere quel rimettersi in cammino, per andare a incontrare gli Undici e essere in comunione con loro nell’annunciare il Risorto, all’interno del nostro percorso di maturazione missionaria e di presenza significativa nel mondo. La Parola accolta con passione e il pane di Dio e della fraternità mangiato insieme mettono le ali ai piedi.
Forse proprio in questi giorni ci stiamo rendendo conto che ambito della fede non è fermare o scansare una pandemia (come certe benedizioni dagli aerei o dati tetti potrebbero dare a intendere, unitamente a certe suppliche), ma creare in nome del Dio, che per noi si è fatto pane da mangiare, fraternità tra gli uomini: sperimentando come nel banchetto eucaristico l’assimilazione a Cristo fa di noi un solo corpo e ci fa correre là dove più forti sono le necessità e le sofferenze, là dove più evidenti sono ingiustizie e disuguaglianze.
Fra’ Mario
Come domenica scorsa vi lascio tre domande che, spero, vogliate porvi e, magari, condividere le risposte.
- Qualcuno di noi ricorda quando diversi anni fa le prime domande che un confessore ti rivolgeva erano: da quanto tempo non ti confessi? Da quanto tempo non vai a messa? Hai commesso atti impuri?... E se oggi ti chiedessero invece: quanto tempo dedichi all’ascolto, allo studio, alla meditazione condivisa delle Sacre Scritture?
- Se una persona arrivando tardi alla Messa chiedesse a te: è ancora valida la mia partecipazione alla messa ? In che modo l’accompagneresti a una concezione/esperienza dell’Eucaristia stile Emmaus?
- “Per questo il tavolo dell’altare, la mensa, è superiore al tabernacolo, perché Cristo fa appello a noi a essere suoi tabernacoli in questo mondo, ad avere il coraggio del suo Spirito, dello Spirito di verità, di rettitudine, di giustizia e di bontà” (Joseph Ratzinger, articolo già citato). Come le nostre Eucaristie ti aiutano a vivere questo legame tra mensa e mondo?

Pasqua 2020
BUONA PASQUA!
Carissimi fratelli e sorelle,
Buona Pasqua a tutti, senza abbracci, senza baci, senza strette di mano ma, davvero, con tutto il cuore e un grande sorriso.
Una pandemia non ti avvisa prima di arrivare, né abbiamo amministratori previdenti, per cui siamo costretti a lottare contro questo nuovo virus con l’isolamento sociale, subendone tutte le conseguenza che comporta.
Ne ho sentito parlare come della più grande tragedia dopo la seconda guerra mondiale… mi rifiuto di pensarlo… Ogni anno nel mondo circa 2.500.000 bambini muoiono di fame (fino ad oggi di covid19 sono morte poco più di 100.000 persone) e nessuno si accorge di questa tragedia…
Ho sentito un ministro di una civilissima nazione del Nord Europa dire: “dobbiamo scegliere tra salute ed economia”… Questa è la reale tragedia: economia vuol dire “amministrazione della casa” e ogni buon padre e ogni buona madre sanno per natura e per amore (anche senza una specializzazione in scienze economiche) che amministrare vuol dire fare in modo non solo che la casa funzioni, ma che tutta la famiglia stia bene. Una economia che non ha come obiettivo il bene di tutti (salute compresa) fa molti più danni di una pandemia, di una guerra, di un terremoto o di un uragano…
Ho sentito dire da un virologo che i virus da ‘milioni di anni’ fanno la loro guerra per stare sempre meglio all’interno delle diverse forme di vita animale… Ritengo possibile pensare che l’uomo non uscirà diverso da prima da questa pandemia, anzi forse ancora più arrogante, quando fra ‘qualche mese’ potrà vantare di aver sconfitto un virus sconosciuto in così poco tempo, contenendo il numero dei morti e impedendo la distruzione del sistema economico vigente…
E allora l’augurio di Pasqua è sempre di grande attualità, anche in un momento come questo, perché non è distribuzione di antidoti contro la paura e le malattie, ma è affrontare quell’autentica tragedia che abbiamo imparato a chiamare con i suoi veri nomi: egoismo, indifferenza, disuguaglianza, ingiustizia, prepotenza… con il desiderio di venirne fuori sempre più, sostenuti dalla buona notizia che c’è uno che tutto questo lo ha vinto una volta per sempre: Gesù, il crocifisso-risorto.
Un pensiero speciale a tutti coloro che sono nel disagio e nella sofferenza, un grazie particolare a tutti coloro che stanno mettendo al centro il servire con il cuore, un augurio a tutti.
fra’ Mario

Di questa settimana porto con me tre cose
Carissimi fratelli e sorelle,
domani iniziamo la quinta settimana di quaresima.
Prepariamoci, come al solito, con una revisione della quarta? Com’è andata? Abbiamo raccolto e vissuto gli stimoli che ci ha offerto la Parola di Dio domenica scorsa? In che modo l’abbiamo approfondita e condivisa con i nostri familiari o con altre persone della nostra comunità? Ha portato qualche novità nel nostro vissuto quotidiano?
Di questa settimana porto con me tre cose.
Domenica 22 – Di chi è la colpa? Il nostro pianeta, come tutto l’universo, si evolve e anche una pandemia è parte di questo processo: non è un castigo di Dio, né semplicemente la conseguenza di squilibri causati da qualcuno. “Smaschera la nostra vulnerabilità”, diceva ieri Papa Francesco, “le false e superflue sicurezze”, che determinano impreparazione e inadeguatezza… Questa pandemia (come qualsiasi altro fenomeno) ci ha raggiunti nello stato reale in cui siamo: e questo è il punto di partenza… quello che non siamo ancora non è una colpa, ma un’aspirazione, un desiderio, una responsabilità…
Mercoledi 25 – Il Verbo si è fatto carne. Chi di noi (di una certa età) non ricorda qualcosa delle preghiere recitate dai nonni? Struggenti e piene di sentimento, ma nate in un’epoca in cui la vita spirituale era ridotta a fare due cose ogni tanto: confessione e comunione, e in forma privata (vedi il ‘Mio Dio’ e il ‘Gesù mio’ con cui iniziano atto di dolore o la cosiddetta comunione spirituale di fine ‘800), tenute talmente in considerazione da relegare in secondo piano quei pilastri della vita cristiana che sono le Sacre Scritture (presenza reale di Dio che ci parla) e la comunione fraterna (presenza talmente reale che Gesù l’ha posta come unico elemento decisivo nella parabola del giudizio finale: l’avete fatto a me).
Venerdi 27 – Nessuno si salva da solo. Credo che tutti noi siamo pervasi da un profondo senso di gratitudine a Dio per averci regalato in questo momento storico e in questi ultimi drammatici giorni un compagno di viaggio come Papa Francesco, che attraversa con noi sulla stessa barca questo mare in tempesta, facendo risuonare forte le parole di Gesù: non abbiate paura! Sono sempre stato allergico a quelle espressioni ‘superstiziose e fanatiche’ di religiosità che nascono dalla paura e che ancora ci caratterizzano e dilagano sui social (immaginucce, formulette, pseudo-reliquie-visioni-segreti-profezie-messaggi e quant’altro) … e che in gran parte passeranno finalmente insieme a questa tempesta… Nei momenti di croce solo braccia aperte verso gli altri liberano da ogni paura.