GIU’ LA MASCHERINA, QUANDO E’ DIO CHE ALITA
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa domenica celebriamo la solennità della Pentecoste, termine greco che indica il cinquantesimo giorno dopo Pasqua, il giorno che chiude questo tempo di sette settimane con cui abbiamo rivissuto la morte, la risurrezione e la glorificazione di Gesù, e imparato a sperimentare il suo essere con noi per sempre, per guidarci e accompagnarci con un dono particolare: la luce e l’energia che provengono da Dio, che oggi si manifesta a noi come Spirito Santo.
In tempi ormai lontani dai nostri, gli agricoltori della “mezzaluna fertile”, dall’Egitto alla Mesopotamia, attendevano e vivevano con grandissima gioia la stagione primaverile, festeggiandone l’inizio con l’offerta dei primi frutti alle divinità, e la conclusione allo stesso modo, prima di entrare nell’arida stagione estiva. I festeggiamenti degli agricoltori ebrei, in particolare, si arricchirono di nuovi significati con l’integrazione con le tribù nomadi provenienti dall’Egitto e le memorie dei grandi eventi dell’Esodo: la liberazione e l’Alleanza del Sinai. L’organizzazione delle festività in cicli temporali, durante i secoli, si basò sempre più sul ricorso al numero simbolico del “7” e dei suoi multipli, espressione di pienezza e compimento.
Fu del tutto naturale per gli Apostoli e i loro discepoli, provenienti dalla religione ebraica, comprendere ed esprimere il mistero di Gesù, pienezza e compimento delle promesse di Dio, ed organizzarne negli anni la memoria, alla luce dei contenuti e delle tradizioni religiose ereditate.
Non potendo approfondire in questo ambito la sovrabbondante ricchezza di contenuti della festa di Pentecoste (cosa che ciascuno però deve fare con la ricerca personale e qualche bel momento di riflessione comunitaria, magari guidata da un competente), e visto che di omelie sulla Pentecoste ne abbiamo già ascoltate chissà quante, vorrei, come al solito, lasciarmi offrire solo qualche indicazione dai testi proclamati oggi, soprattutto nella prospettiva di riceverne la luce, l’incoraggiamento e la capacità di rinnovamento radicale, di cui abbiamo bisogno in questi giorni di pandemia, per viverli come tempo, benché difficile, pieno di senso e di prospettive. “Tempo di scelta… per reimpostare la rotta verso il Signore e verso gli altri” (Papa Francesco).
Come già domenica scorsa per i racconti dell’Ascensione, anche oggi, per l’annuncio del dono dello Spirito, abbiamo due racconti diversi tra loro dal punto di vista cronologico: nel Vangelo di Giovanni l’evento è collocato nel giorno stesso della Risurrezione, il primo della settimana, quello dopo il settimo, della vittoria di Gesù sul male e sulla morte e dell’inizio della nuova creazione; negli Atti degli Apostoli l’evento è collocato nel cinquantesimo giorno dopo la Risurrezione, a sottolineare che un’Alleanza nuova, fondata sullo Spirito presente nel cuore del credente, sostituisce quella antica fondata sulla legge scolpita su tavole di pietra, e coinvolge non più un solo popolo, ma tutti i popoli della terra, verso cui è proteso l’annuncio della Chiesa.
Questi modi diversi di raccontare, tuttavia, ci conducono ad uno stesso contenuto: la Pasqua di Gesù è l’evento in cui non solo è successo qualcosa di unico, in cui Dio è intervenuto come mai prima nella storia, ma inizia qualcosa di nuovo, anche questo senza precedenti, per tutti coloro che sono in relazione con Lui e gli riservano il posto centrale nella loro vita. Il turbinio della Pasqua che ci coinvolge è ciò che chiamiamo Spirito Santo, promotore di una relazione ogni giorno più profonda e arricchente con il Maestro e suggeritore di un cammino di radicale trasfigurazione della vita personale e della storia.
“La sera di quel giorno, il primo della settimana…”, cioè mentre quel giorno finiva e iniziava il nuovo, Gesù, Colui che aveva donato la vita sulla croce (vedere le ferite di mani e piedi), si fa presente vivo in mezzo ai discepoli, che per la sua vittoria sulla morte ricevono in dono la pace e la gioia. Poi, come Dio aveva soffiato la vita nell’uomo appena creato, Gesù soffia su di loro lo Spirito per farne dei portatori di vita nuova, libera dai peccati della precedente. Attenzione a non darne un’interpretazione meramente moralistica… siamo dei miseri peccatori che commettono errori che vanno continuamente perdonati… Il peccato in Giovanni è il rifiuto del Cristo, il non lasciarsi guidare dallo Spirito a metterlo al centro della vita, vivere come se Cristo non esistesse o non l’avessimo incontrato, pensare e agire da persone tenebrose, non illuminate dalla Parola di Dio.
Così proprio in questi giorni in cui dobbiamo indossare mascherine per evitare di contaminarci o trasmettere il virus attraverso goccioline di saliva infette, siamo chiamati a riaprire la nostra interiorità a Colui che può soffiarvi la vita che viene da Dio; a risolvere una volta per tutte il dilemma se lasciarci dominare dalla paura, e cadere di conseguenza, nella trappola di una religiosità anestetizzante, piena di amuleti inefficaci, o aprirci ad una fede finalmente fatta di fiducia, di convinzioni profonde, di quella fratellanza, frutto dello Spirito, in cui ciascuno fa responsabilmente la propria parte per il bene di tutti (vedi il discorso di Paolo ai Corinzi).
Ogni giorno nei nostri dialoghi o discussioni intorno alla pandemia, i problemi da essa generati e le soluzioni da adottare, così come tra i politici e i cosiddetti esperti, scoppiano scintille. La festa di oggi chiede a noi credenti, che ci lasciamo contaminare senza paura dal respiro di Cristo, di non restare impantanati in sterili polemiche, ma anche di non isolarci, di non distanziarci dagli altri, quasi come fossimo persone che hanno altro da pensare o altri obiettivi da raggiungere. Per Luca i credenti sono quelli che hanno dentro il fuoco della Parola (vedi i due di Emmaus o le fiamme come di fuoco posatesi sugli Apostoli), sono quelli scompigliati dal vento che apre tutte le porte perché a ciascuno arrivi il grande racconto delle meraviglie che opera il Dio che ‘soffia ancora’, trasformando la sera del giorno precedente nell’inizio di un giorno completamente nuovo.
E’ Pentecoste! Giù le mascherine, almeno per oggi, non quelle antivirus naturalmente, ma quelle che impediscono allo Spirito di generare in noi una fede libera dai confini di ieri, coltivata con le conoscenze e le competenze di oggi, capace di intravedere le prospettive future, abitata dalla passione per il bene, il bene di tutti, per cui impegnare con entusiasmo tutto se stessi.
Fra’ Mario
ASCESO AL CIELO, CIOE’ ANCOR PIU’ PRESENTE
Carissimi fratelli e sorelle,
celebriamo oggi il quarantatreesimo giorno di Pasqua. Da qualche anno in questa domenica viene collocato il ricordo dell’evento dell’ascensione al cielo di Gesù, che ci viene narrato solo dall’Evangelista Luca e in due forme diverse: la prima nella finale del Vangelo in un non meglio precisato luogo vicino Betania nello stesso giorno della risurrezione, la seconda all’inizio del libro degli Atti mentre Gesù e gli 11 Apostoli si trovavano a tavola, quaranta giorni dopo la risurrezione, in un luogo di Gerusalemme o dei dintorni del monte degli ulivi. Questo secondo racconto, che oggi proclamiamo come prima lettura, termina con una frase in cui si menziona per tre volte il ‘cielo’: perché state a guardare il cielo?... E’ stato assunto in cielo… verrà dal cielo… Attenzione, dunque, perché dal modo in cui interpretiamo la parola ‘cielo’ dipenderà una comprensione più o meno sostenibile della Risurrezione di Gesù.
Credo che non sfugga a coloro che sono addentro a dei percorsi di approfondimento biblico e, spero, anche a chi si limita all’ascolto della Parola della domenica, come gli annunci della Pasqua (crocifissione e morte, sepoltura e risurrezione, manifestazioni del Risorto - presenze, dono dello Spirito, ascensione -) siano elaborati sulla base di racconti e immagini delle grandi manifestazioni di Dio nella storia del popolo ebraico, con particolare riferimento ai libri della genesi e dell’esodo, alle esperienze mistiche dei profeti, alle rielaborazioni di tipo storico-sapienziale seguenti l’esilio babilonese. Ricordiamone alcuni elementi: il numero 40, la nube, le acque aperte, chiuse, correnti, la fiamma, la montagna, i tuoni, i fulmini, i terremoti, le voci, i rapimenti al cielo, gli squarci, la potenza, la gloria, la maestà…
Parliamo di manifestazioni di Dio, fratelli e sorelle, e siamo certamente consapevoli che le parole e immagini che usiamo sono sempre delle indicazioni piuttosto che delle descrizioni esatte, punti di partenza piuttosto che asserzioni inconfutabili… linguaggio simbolico, ossia punto di incontro tra parole e immagini di tutti i giorni è una realtà invisibile e ineffabile, trascendente, diciamo noi, cioè che sta già dentro le nostre cose e nello stesso tempo è del tutto al di là. Per questo è bene piuttosto che tentare di immaginare e descrivere i dettagli concreti di un evento, invocare, come dice Paolo nella seconda lettura, lo “spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui… perfetto compimento di tutte le cose”.
Nel mondo di Dio si entra prima di tutto con un atteggiamento di “prostrazione”: quando videro Gesù risorto gli undici, ci racconta Matteo, si prostrarono (così come mentre viene portato su in cielo, nel vangelo di Luca): ne riconobbero la dimensione divina e la sua signoria sulla loro vita. I racconti della risurrezione non sono tentativi maldestri e culturalmente limitati di spiegarne i dettagli, ma espressione di una dedizione fiduciosa e assoluta, di persone (gli 11, come ogni credente) che si sono consegnate completamente a Lui.
“Essi però dubitavano”, aggiunge Matteo. E’ significativo che in tutti i racconti di incontro con il Risorto affiori in qualche modo un senso di timore e di dubbio. Sembra quasi che per incontrare davvero il Risorto e avere una relazione autentica con Lui dubitare sia una necessità. Il dubbio può risolversi in un nulla di fatto, gli ateniesi quando udirono Paolo parlare della risurrezione di Cristo se ne andarono deridendolo, o può dare inizio all’avventura di lanciarsi in quel cammino in cui l’irraggiungibile diventa possibile, che è la fede.
Gesù si è trovato anche Lui tante volte a dover scegliere tra l’apparentemente sicura e gratificante logica dell’affermazione di sé (avere visibilità, denaro, leadership politica e religiosa) e la ricerca del completamente altro, e nel momento della prova ha sperimentato anche lui il timore e il dubbio, pensiamo all’angoscia del Getsemani, ma ha preferito consegnarsi completamente a Dio, si è prostrato fino a “perdere la propria vita” per trovare quella Vita che il Padre gli ha partecipato in pienezza e nella quale siamo immersi (battezzati) tutti noi che lo seguiamo.
Questo significa affermare che Gesù è stato assunto (portato) in cielo (come scrive Luca), andato al Padre (come scrive Giovanni), fatto sedere alla destra del Padre (come scrive Paolo). Nelle domeniche precedenti avevamo sentito i discepoli chiedere a Gesù quale fosse il luogo dove egli stava andando… oggi sentiamo i discepoli annunciarci che il luogo dove Gesù è andato per sempre non è oltre le nuvole (non è il cielo dei giudei, aggiungerei io, ne il paradiso cattolico così come è stato descritto in tante prediche del passato): questo luogo si chiama “presenza”: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (o della presente era, come traducono molti), è la conclusione solenne del Vangelo di Matteo.
Quindi la domanda di oggi non è “dov’è finito Gesù?”, ma “dove è presente Gesù e come possiamo incontrarlo?”
Dal racconto di Matteo accoglierei tre indicazioni.
“Sul monte in Galilea”. In realtà Gesù non aveva dato alcun appuntamento di questo tipo agli Apostoli. E’ inutile cercare un luogo preciso. Nel Vangelo di Matteo si parla di due montagne in Galilea: quella delle Beatitudini e quella della trasfigurazione. Potremmo provare a fonderle in un unico monte e raccogliere l’invito a salirvi: Gesù lo incontri nelle Beatitudini che trasfigurano l’esistenza. Rileggiamole spesso e pratichiamole, sono 8 (la cifra della risurrezione), sono la strada maestra per vivere da risorti.
“In tutti i popoli”. E’ stupendo in questo tempo di migrazioni e convivenza tra popoli di diverse culture e religioni, in questo tempo in cui si aprono nuovi spazi di comunicazione e di scambio, poter offrire a tutti la ricchezza del Vangelo. “Andando” dice Matteo, stando in mezzo agli altri da risorti, persone che non cercano il cielo in prospettiva individualistica, ma come ‘discepoli e missionari’, per vivere, testimoniare e proporre, coscienti che lo Spirito suscita discepoli tra tutti gli uomini.
“Io sono con voi tutti i giorni”. Chissà quante persone in questi giorni di pandemia si staranno chiedendo se Dio c’è davvero e quanto ci si possa fidare ancora di lui, o quale rapporto c’è tra fiducia in Dio e la necessità delle competenze degli scienziati e dei risultati strabilianti dello sviluppo tecnologico. E’, è stata e sarà sempre una bella questione da affrontare, che necessità certamente di indicazioni né banali, né scontate… Attraversare il mare in tempesta non è mai una piacevole esperienza e stiamo imparando proprio in questi giorni che dai problemi se ne esce solo tutti insieme, se capaci di quella fratellanza e solidarietà, frutto non solo di un indovinato progetto socio-economico, ma anche e soprattutto della presenza in mezzo a noi del Maestro che sa fare del cuore umano un angolo di cielo.
Fra’ Mario
“VIALE DEL TRAMONTO” O “SENTIERO DELL’ALBA” ? (18/05/2020: Festa di San Felice da Cantalice)
Carissimi fratelli e sorelle,
poter riprendere la celebrazione dell’Eucaristia fisicamente insieme nel giorno della festa di San Felice è soltanto una singolare coincidenza, però non può non essere un ulteriore motivo di gioia per noi che, tra i tanti orientamenti che guidano la vita di ciascuno, abbiamo anche quello di poterci ispirare al nostro Santo Patrono.
Durante la quarantena si sono interrotte tutte le nostre attività, ma non quella fondamentale: abbiamo potuto mettere al centro la Parola di Dio, in tante forme: celebrazioni in streaming, incontri di formazione su diverse piattaforme, riflessioni ed esperienze condivise sui social… Adesso è il momento della ripartenza, certamente a piccoli passi, ma si riparte… e proprio questi primi passi sono determinanti nello scegliere dove indirizzare il nostro cammino nei giorni che verranno e che saranno certamente diversi da quelli precedenti la pandemia, anche se non ce ne rendiamo ancora pienamente conto.
Una settimana fa il Cardinale Vicario, Don Angelo, ha indirizzato ai sacerdoti e ai diaconi una lettera per farci una proposta impegnativa, a partire dalle parole di Papa Francesco del 27 marzo “… è il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. E’ il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri”. In questa lettera ci ha chiesto di vivere questi giorni come “il tempo della scelta. Non è affatto scontato che si debba ritornare a fare tutto ciò che facevamo prima. Dobbiamo sederci, stare in silenzio, ascoltare la Parola e fare discernimento… la Parola e la vita dei fratelli”.
In questi giorni noi frati cappuccini del Lazio, dell’Umbria e dell’Abruzzo che stiamo per dare vita ad un’unica realtà con le ridotte forze che abbiamo a disposizione, stiamo facendo lo stesso discernimento e ci siamo fatti aiutare da frà Raniero Cantalamessa nell’approfondire uno dei principi esposti nella Evangelii Gaudium: il tutto è superiore alla parte. Se si svuole che nasca qualcosa di veramente nuovo e che sia voluto da Dio per il “bene di tutti” occorre uscire da una visione di parte e dal privilegiare il proprio interesse.
A fare discernimento in questa liturgia in memoria di San Felice, in questo tempo di scelta in cui siamo chiamati ancora una volta ad uscire dal guscio delle nostre abitudini, sicurezze e assuefazioni, ci aiuta il finale del brano del vangelo di Luca appena proclamato: “cercate piuttosto il Regno di Dio, e queste cose (di che mangiare e bere, di che vestire, di che vivere) vi saranno date in aggiunta”. Siamo invitati, cioè, ad esprimere il nostro essere credenti riconoscendo che la nostra vita e tutta la realtà è sotto la signoria di Dio e quando lasciamo a Dio il ruolo di Signore, di guida, di fondamento della fratellanza e della giustizia, allora quell’augurio che ci siamo espressi all’inizio della quarantena “andrà tutto bene” non rimarrà soltanto una formula beneaugurante, ma coinvolgerà in maniera dirompente e totalizzante la vita di ciascuno di noi: cosa sono disposto ad investire, qual è la responsabilità che sono pronto ad assumermi, quali sono tutte le cose che posso lasciarmi dietro le spalle perché ciascuno abbia almeno un po’ di bene come risposta alle sue ansie, alle sue necessità, ai suoi desideri?
Cari fratelli e sorelle, pur vivendo in un’epoca di informe “gassosità” (come la chiama Papa Francesco) e di “passioni tristi” (che ci fanno preferire i tranquillanti alle prese di coscienza e a scelte decise e decisive) le provocazioni occorre raccoglierle perché solo così si deciderà se stiamo percorrendo il “viale del tramonto” o il “sentiero dell’alba”.
In questa festa di San Felice, giorno di ripartenza, cerchiamo allora di rintracciare, ricordandolo, alcuni suggerimenti integrativi a quelli che già stiamo seguendo nel cammino diocesano.
Ci hai dato in San Felice un “modello di semplicità evangelica”. Prima indicazione: essenzializzare, anche nel senso di semplificare… evitiamo di trasformare in un peso quanto dovrebbe invece rendere splendida la vita, liberiamoci dei pesi che abbiamo accumulato come Chiesa nei secoli, e di quelli nuovi che ci siamo imposti in questi ultimi anni… una volte per tutte, senza prove di forza e fanatismi, con semplicità, umiltà e pazienza, appunto (cfr prima lettura Col 3,12-17).
Conserviamo in Chiesa un Crocifisso proveniente dal Convento di Cittaducale che ci ricorda che San Felice passò le ore in preghiera davanti a Lui, come poi farà quasi tutte le notti della sua vita in altri luoghi, e dal Cristo imparò ad essere il servo di tutti. Ritorniamo, fratelli e sorelle, ad una preghiera che coinvolge la vita, uscendo da quella schizofrenia che è il sentirsi in pace con Dio, ma non riuscire mai a vivere fraternamente e “servilmente” con gli altri.
Uno dei segni più belli con cui ricordiamo san Felice, il ‘fornaio delle vie di Roma’, è la distribuzione del pane… Di quanto pane c’è bisogno in questi giorni… Ma ricordiamoci che non basta distribuire, il vero miracolo è condividere, è fondersi. In questa prima Eucaristia che celebriamo insieme ricordiamo allora che Cristo è realmente e pienamente presente nel pane e nel vino, mangiato e bevuto da noi, che così diveniamo un solo corpo con Lui e tra di noi.
Mentre il sole tramonta, torniamocene a casa, contenti, ma non del tutto… sarà di nuovo l’alba quando abbracciarci con sincerità e affetto, sarà il segno che il Vangelo ci ha preso dentro.
Fra’ Mario.
SPIRITUALI, CIOE’ CAPACI DI “OLTRE”-VI DOMENICA DOPO PASQUA
Carissimi fratelli e sorelle,
celebriamo oggi la sesta domenica del tempo di Pasqua, il trentaseiesimo giorno dalla domenica di Risurrezione, mentre ne mancano ancora 14 alla solennità della Pentecoste, il cinquantesimo giorno che chiude questo lungo ciclo liturgico.
Credo che l’attenzione che ci mettiamo di questi tempi nel contare i giorni trascorsi dall’inizio della pandemia e quanti ne mancano all’inizio di una nuova fase… debba stimolarci a recuperare il senso del tempo anche dal punto di vista della fede: viviamo sempre in mezzo a grandi cose già avvenute e a grandi cose che avvengono e che avverranno… ‘evoluzione’ è il termine tecnico che descrive questo processo, ‘promessa’ il termine biblico al quale noi credenti decidiamo di dare credito e che ci suggerisce gli atteggiamenti con cui starci dentro.
Purtroppo la maggior parte di noi non siamo stati formati a vivere questi 50 giorni della Pasqua come il tempo centrale dell’anno, da gustare, a partire dalla Risurrezione di Cristo, giorno per giorno in un crescendo di conoscenza, di meraviglia e desiderando il dono dello Spirito, nella Pentecoste, ultimo giorno dei cinquanta, ma in senso ampio giorno definitivo, dimensione definitiva di una vita non più soltanto espressione dell’evoluzione di ogni essere dell’universo, ma spazio abitato e orientato da Dio e dalle sue promesse.
Non essere stati formati significa, purtroppo, a volte anche rinunciare a lasciarci guidare giorno per giorno dalla Parola di Dio predisposta per alimentare il cammino spirituale quotidiano, così da farlo diventare una tappa sempre nuova e sorprendente di questo ‘crescendo’, per rifugiarci nella rassicurante ripetizione di devozioni che finiscono per sovrapporsi e sostituire il cammino liturgico, tipo mese di maggio o tridui e novene varie… o anche un certo modo (‘mondano’, direbbe Papa Francesco) di vivere questo tempo come mese delle prime comunioni, invitati quasi ogni domenica di qua e di la’, più per festeggiare i nostri bambini, che per incontrare realmente il Cristo risorto.
Non essere stati formati, in questi tempi di marginalizzazione della vita interiore, significa che nelle domeniche di maggio le chiese cominciano a svuotarsi anche perché il primo assaggio del mare, l’allegria delle sagre primaverili, le escursioni in mezzo alla natura che si risveglia, prendono il sopravvento sul desiderio di un incontro profondo con il Cristo e con la comunità (diciamoci la verità anche a motivo di un modo di celebrare formalistico e monotono).
In questa primavera senza prime comunioni, senza escursioni, e, al di fuori di ogni previsione, addirittura senza celebrazioni comunitarie, questa sesta domenica di Pasqua possiamo viverla, allora, come una occasione propizia per ridare a questi giorni il loro senso profondo: innamorarci sempre più di Gesù Cristo per essere pronti ad accogliere il dono da Lui promesso: il suo stesso Spirito, energia divina che può trasfigurare le nostre esistenze.
Al cuore della proclamazione delle Sacre Scritture c’è anche oggi un brano tratto dal capitolo 14 di Giovanni, da quella sezione letteraria che abbiamo chiamato discorso dell’addio e della continuità. A differenza del brano precedente dove l’intervento di Gesù era motivato dalle domande dei discepoli, questa volta sono le sue affermazioni che suscitano la domanda dell’Apostolo Giuda, non l’iscariota, “come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”. Quindi gli apostoli avevano ben compreso che le parole dette da Gesù erano rivolte in modo particolare a loro e non a quel ‘mondo’ di scribi e farisei e di pubblici funzionari che qualche giorno dopo ne avrebbero determinato la morte.
Parole rivolte da Gesù ‘fisicamente’ presente tra quei discepoli riuniti intorno a lui quella sera… da loro accolte con amarezza pensando al suo andarsene al Padre… rielaborate con gioia riuniti intorno a lui ‘spiritualmente’ presente dopo la risurrezione. ‘Fisicamente’, ossia una presenza circoscritta a luoghi e tempi precisi e fruibile solo dai presenti. ‘Spiritualmente’, ossia una presenza altrettanto reale ed efficace, che travalica i limiti di spazio e di tempo, e che diventa una sorgente di quella ‘vita altra’, offerta da Gesù già prima di e nel morire per noi e ora ancor di più nella sua condizione di risorto, sperimentabile e assimilabile da tutti coloro che vogliono incontrarlo.
Cosa chiede e cosa promette, dunque, Gesù ai discepoli, noi compresi ? Mi concentro su tre aspetti, che chiedo a ciascuno di ampliare con la riflessione personale.
“Se mi amate”, ossia “prima di tutto amatemi” e “amatemi più di tutti gli altri e di tutto il resto”. Può sembrare elementare come richiesta, ma ricordate come vacillò Pietro quando Gesù gli chiese personalmente e con insistenza: “Mi ami?”, “mi ami più degli altri?”. Oggi questa domanda è rivolta a me e a te, fratello e sorella, che facciamo un sacco di cose religiosamente valide (messe, rosari, digiuni e elemosine, attività benefiche e servizi ecclesiali …), ma che siamo chiamati a passare dal fare cose, a vivere una relazione, dall’essere praticanti ineccepibili all’essere profondamente innamorati e darne testimonianza, non nel senso di una prova di forza e di coerenza, ma di essere conquistati da Gesù, manifestazione suprema dell’amore del Padre, che fa di noi stessi una manifestazione di Lui, nell’amore vicendevole.
“Osserverete i miei comandamenti”, ossia “avrete a cuore”, “avrete nel cuore le mie parole”… nel cuore, davanti agli occhi, legate alle mani, sugli stipiti delle porte… ripetute di giorno e di notte, come già si chiedeva ad ogni Ebreo nel libro del Deuteronomio. Per capire la via di Gesù non bisogna fare viaggi in chissà quali luoghi misteriosi del mondo, consultare specialisti e frequentare biblioteche, essere dotati di particolari attitudini o competenze: occorre accogliere le sue parole e praticarle (“senza commenti accomodanti”, direbbe San Francesco). Eh si, cari fratelli e sorelle, proprio adesso che stiamo per tornare a celebrare insieme il culto, siamo chiamati a verificare quanto sia stato autentico il nostro percorso di discepoli, spogliati di tante forme di preghiera, ma proprio in questo invitati a tornare alla sorgente: le parole di Gesù che comunicano la vita che viene da Dio, che trasformano dal di dentro, che si traducono in stile.
“Pregherò il Padre di dare a voi un altro Paràclito, lo Spirito della verità, che sarà sempre con voi”. Si, agli Apostoli servì un altro “consolatore” per superare lo scandalo della morte di Gesù, alle prime chiese un altro “avvocato” per superare le persecuzioni… ad ogni generazione lo Spirito che porta alla verità, che scardina le presunte sicurezze acquisite e gli stili standardizzati, sia di vita che celebrativi, e col suo soffio spalanca le porte all’avvento nel presente del Dio, sempre oltre. Fratelli e sorelle, quanto avvertiamo il desiderio di essere cristiani nel modo richiesto da questi e dai prossimi giorni, e quindi in maniera diversa rispetto a ieri? Cosa ci lasciamo suggerire dallo Spirito?
I samaritani, ossia ebrei scismatici con poca simpatia per Gesù, avevano fatto dei passi da gigante nella fede: avevano accolto nella predicazione di Filippo la Parola di Dio ed erano stati battezzati nel nome di Gesù… forse potevano star bene già così… ma Pietro e Giovanni andarono per imporre le mani su di loro, alla maniera del Maestro, e fare loro dono di quello Spirito che ti porta sempre più in profondità e, al tempo stesso, sempre più in là di ciò che hai raggiunto.
Fra’ Mario
IL DOMANI DEI CREDENTI-V Domenica di Pasqua
Carissimi fratelli e sorelle,
il Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua ci riporta all’interno della sala nella quale i discepoli hanno cenato con Gesù prima della morte, dove lo hanno incontrato risorto, da cui sono usciti, mossi dallo Spirito, per portare il Vangelo a tutti. Leggiamo, infatti, i versetti iniziali del capitolo 14 di Giovanni. Questo Evangelista, a differenza degli altri, ci racconta quella che chiamiamo l’ultima cena senza i particolari del rituale della cena pasquale ebraica, ma piuttosto con i tratti di una vera e propria cena di addio, avviata dal gesto iniziale della lavanda dei piedi (cap. 13) e che si conclude dopo un lungo discorso con una intensa preghiera per i discepoli (cap. 17).
Questa corposa sezione del Vangelo inizia così: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (13,1). E termina con questa espressione: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26).
Le parole di Gesù circa il suo passare al Padre e le consegne per i discepoli ci arrivano, organizzate appunto come in un lungo discorso, così come le prime comunità le hanno meditate e approfondite, in quel “sovrappiù di conoscenza” dovuto alla comunione profonda col Maestro (dimorare uno nell’altro) e alla crescente acquisizione di uno stile con Lui condiviso di dono e servizio per gli altri (il comandamento definitivo). Parole da accogliere, dunque, come le cose che stanno più a cuore a Gesù, e con l’atteggiamento del discepolo da lui amato di una confidente intimità (13,25).
Un Gesù, profondamento turbato, aveva annunciato il tradimento di Giuda e, dopo la sua uscita dalla sala, rivelerà ai discepoli di avere ancora poco tempo da stare con loro e di andare in un luogo dove loro non possono seguirlo. Per questo gli confida il senso profondo di ciò che lui sta vivendo (verità), la sua vita e la sua via: come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri. Parole che risentiremo più avanti in una forma simile: “Come il Padre mi ha amato, così anch'io ho amato voi; dimorate nel mio amore” (15,9).
A questo punto tre interventi dei discepoli (noi oggi ne leggiamo solo due) : Pietro che vuole sapere del luogo, promettendo una fedeltà che non sarà capace di mantenere; Tommaso, che aveva dichiarato di voler andare a morire con Gesù, ma che non conosce la via per arrivarci; e Filippo cercatore sincero di Dio, di quel Dio che però non riesce a intravedere nel volto di quell’uomo che gli aveva appena lavato i piedi.
Un Gesù, non più turbato, invita i suoi stessi discepoli, dei quali conosce le debolezze, a non aver paura: il dono di una comunione piena con Dio (espressa con l’immagine della casa e le dimore, la casa è fatta per dimorarvi, e Dio e l’uomo sono casa pronta per la dimora dell’uno nell’altro), questo dono è alla loro portata, offerto dal maestro che dà la sua vita per loro. Credete in me! Ossia, accettare una volta per tutte e senza ripensamenti, che Gesù che muore sulla croce è la rivelazione più alta dell’amore del Padre, che in quel modo di amare fine alla fine c’è il senso più profondo dell’esistenza, è tracciato il cammino del credente di ogni tempo.
Veniamo a noi e alla quarantena di questi giorni. Forse anche noi come Pietro, Tommaso e Filippo, facciamo i conti con le nostre infedeltà, con il percorrere un cammino che non sempre coincide con quello del Maestro, religiosi abbastanza, ma privi di quella fede che sa farci amare al modo di Gesù…
Allora, chiediamoci: vogliamo al più presto tornare a incancrenirci nell’esprimere la nostra religiosità attraverso forme, che forse neanche Gesù ha mai immaginato che potessero esistere o essere autentiche manifestazioni di fede, o vogliamo compiere con il Maestro l’esodo verso l’amore pieno?
Questo è il domani dei credenti, non il cimitero: desiderare e provare a vivere l’amore senza misura, quello ‘proprio’ di Dio, che ci consente di fare quelle cose meravigliose, che Gesù stesso prevedeva addirittura più grandi di quelle fatte da lui.
Fra’ Mario