
UNO SPLENDIDO RACCOLTO PER I SEMINATORI DI SPERANZA
Carissimi fratelli e sorelle,
continuiamo in questa sedicesima domenica del tempo ordinario la lettura di alcune parabole sul regno dei cieli nel capitolo tredicesimo di Matteo: il buon grano e la zizzania, il seme di senape, il lievito.
Vorrei iniziare la mia riflessione proprio a partire dalla parabola del lievito, perché a volte anche nella preparazione di un’omelia si può correre il rischio di voler dire a tutti i costi qualcosa di completo, di importante, all’altezza di altri commenti… dimenticando che ogni nostro intervento è solo un piccolo contributo alla crescita di tutti, alla stregua di quella piccola quantità di lievito che fermenta tutta la pasta; una riflessione è solo un piccolo tentativo di cogliere una porzione di quella ‘verità’ che si rivelerà alla fine del processo di ricerca e di crescita sempre più ricca e articolata di quanto già intuito.
Il Regno dei cieli è simile al lievito… non è appariscente, non c’è bisogno di dosi massicce, non si impone… Il Signore dei cieli, il Dio di Gesù, non si manifesta con effetti speciali, pur essendo così potente da poterlo fare… ma, come leggiamo nel libro della Sapienza, giudica con mitezza… governa con molta indulgenza… è giusto perché ama gli uomini e gli concede sempre la possibilità di pentimento. Da Lui i figli del regno imparano a stare al mondo con mitezza e umiltà, senza sottarsi alla responsabilità di offrire il proprio contributo personale al bene di tutti.
Questo è il buon lievito, mi verrebbe da dire in questi nostri tempi in cui preferiamo il lievito madre ai fermentanti chimici, e controlliamo la durata della fermentazione … Un buon lievito e un tempo di fermentazione prolungato garantiscono alla fine una pasta buona di gusto e ben digeribile. Bontà di fondo e pazienza garantiscono un ottimo risultato, molto più di precise programmazioni o oscure macchinazioni. Questa è la prospettiva che il brano di oggi ci offre già a partire dalla prima parabola del buon grano e della zizzania.
Come la precedente del seme caduto sui vari tipi di terreno, anche questa si apre con l’immagine di un uomo che semina del buon grano nel suo campo, certo che porterà frutto. E’ importante notare come in questa raccolta di sette parabole le prime tre si aprano con l’immagine dell’uomo che semina e che questo capitolo si apre con il racconto di Gesù che esce di casa e si reca lungo il mare a seminare la Parola di Dio in chi si raduna per ascoltarlo, così come il papà dei cieli gli ha chiesto di fare. Il Dio di Gesù è, dunque, un instancabile seminatore di seme buono e ha uno sguardo molto lungo che sa tenere insieme le difficoltà della crescita e della maturazione con il risultato finale.
La presenza della zizzania in mezzo al grano non è da attribuire, dunque, al buon seminatore, ma ad un secondo agente: il nemico. Anche qui però non c’è da sfasciarsi la testa, né da illudersi: nessuno può vivere una vita priva di difficoltà o evitare il rischio di divenire lui stesso di ostacolo alla crescita del buon seme della Parola. Ai tempi di Gesù, la convivenza di piante buone e selvatiche, pure se queste fossero presenti per il dispetto di un nemico, era un fatto accettabile, sia perché non era facile separare con gli strumenti a disposizione i semi buoni da altri similari quando si mettevano da parte i semi per la semina della stagione successiva, sia perché molti semi sono diffusi naturalmente dal vento. Questo fa intuire a Gesù che più importante dello sradicamento delle erbacce è l’arrivo al frutto del seme buono, che un nemico potrà anche ostacolare, ma mai impedire del tutto. Al momento della mietitura le erbacce saranno accatastate per essere bruciate, mentre il grano buono riempirà i granai, alla faccia dei dispettosi e dei profeti di sventura.
Nei decenni che seguono la predicazione di Gesù, la comunità cristiana, a cui probabilmente risale la riflessione/spiegazione della parabola, vive una situazione davvero difficile sia per le persecuzioni esterne e sia per la zizzania interna: le divisioni, le debolezze, le cadute, le defezioni… La parabola del buon seme e della zizzania viene riletta e spiegata servendosi di quel linguaggio che chiamiamo apocalittico (rivelatore attraverso immagini forti delle grandi cose che stanno sotto agli eventi) e escatologico (rivelatore di ciò che avverrà alla fine): nell’ultimo giorno fornace ardente per i figli del maligno, operatori di scandali e iniquità, splendidi come il sole i giusti figli del regno. Lasciando, dunque, al Signore dei cieli di separare definitivamente il bene dal male (questo significa abbandonare atteggiamenti di impazienza e di insofferenza ed evitare la tentazione di esprimere noi giudizi e sentenze sugli altri) i credenti sono implicitamente invitati a crescere e maturare, giorno per giorno, e a far intravedere pure in mezzo alle tenebre le prime luci dello splendore finale.
Il paragone del piccolissimo seme di senape dal quale si svilupperà una pianta in grado di ospitare i nidi degli uccelli, al pari di quello del lievito, invita a riflettere sul fatto che la piccolezza degli inizi non è un condizionamento negativo, perché anche qui la crescita porterà ad un risultato strabiliante. Il regno di Dio, dunque, anche se può sembrare lontano, tuttavia è presente al punto che verrà il momento in cui diventerà incontenibile. Se i figli del regno si preoccupano allora di dimostrare la propria efficienza e il loro valore sbagliano completamente percorso. Umili, ma non marginali, operosi, ma non frenetici, inclusivi, e non operatori di arbitrarie selezioni, essi possono dare un contributo fondamentale alla lievitazione di tutta la pasta, alla crescita di tutta la pianta, e all’abbondanza del raccolto finale.
Carissimi fratelli e sorelle, riascoltare queste parabole nel difficile tempo della pandemia, ormai fattasi globale, in mezzo alle tante nubi oscure che si addensano sulla vita di gran parte dell’umanità, rappresenta un’occasione quanto mai propizia per recuperare le virtù della pazienza e della lungimiranza, la prospettiva di un futuro buono che includa tutti gli essere umani, quella operosità spicciola per cui l’insistere sulle piccole cose non è mai tempo perso. E’ tempo di non lasciarsi irretire dai seminatori di zizzania e di non diventarlo noi stessi coltivando le nostre limitatissime visioni di parte o stando sempre a palesare la delusione per le cose che non vanno come vorremmo, perennemente alla ricerca di un nemico a cui attribuirne la causa. In mezzo a tante prostrazioni e frustrazioni, anziché abbandonarci al piagnisteo e alla ricerca di facili consolazioni, assumiamoci le nostre piccole personali responsabilità e seminiamo speranza: il piccolo seme di una vita donata, anche aggrovigliandosi con le radici di semi di altro genere, genererà sempre e comunque uno splendido raccolto.
Buona domenica, fra’ Mario.

IL SEME E’ VINCENTE!!!
IL SEME E’ VINCENTE!!!
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa quindicesima domenica del tempo ordinario iniziamo a leggere il capitolo 13 del vangelo di Matteo, dove, ancora una volta nella forma di discorso, ci vengono presentate alcune parabole di Gesù sul regno dei cieli, con alcune attualizzazioni operate dalla prima comunità.
La parabola che ascoltiamo oggi è quella del seminatore che sparge il seme in abbondanza e che certamente porterà molto frutto, anche se la resa è condizionata dal tipo di terreno su cui cade. Una parabola conosciutissima e importantissima, al punto che lo stesso Gesù, come riporta Marco (4,13), dirà: “se non capite questa come capirete tutte le altre” ?
Nella liturgia della Parola di oggi questa parabola è preceduta da un’altra famosissima del profeta Isaia: come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver fecondato e fatto fruttificare la terra, così è della Parola che viene da Dio e che non tornerà a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata.
Chi ha fatto un pellegrinaggio in terra santa non può non essere rimasto colpito dalla rigogliosità della pianura tra la Galilea e la Samaria, chiamata appunto per la sua fertilità: “Dio semina”.
Ed è questa la prima realtà su cui siamo chiamati a riflettere: il ‘mestiere di Dio’ è quello di seminare, seminare la sua Parola, in abbondanza, una Parola che porta frutto sempre, nonostante l’ostacolo di qualche asperità e qualche ritardo.
E’ questa sicuramente la certezza che si portavano dentro gli Apostoli e le prime comunità nella loro azione missionaria non priva di difficoltà e di insuccessi, come aveva previsto Gesù, ma fondata sulla consapevolezza che la Parola di Dio è più potente di ogni opposizione e porta frutto in maniera abbondante là dove non te lo aspetti. Quante volte lo stesso Luca estasiato dinanzi all’adesione di tanti alle comunità apostoliche, nel Libro degli Atti, sottolineerà che la Parola operava prodigi, cresceva e si diffondeva, moltiplicava il numero di coloro a cui il Signore cambiava radicalmente l’esistenza. Che cosa meravigliosa fidarsi di una Parola che porta sicuramente frutto!
Anche oggi, nel mezzo di questa pandemia, come non notare che, soprattutto durante il lockdown, chiusi in casa e senza la possibilità di vivere esperienze comunitarie a cui eravamo abituati, ciò che non ci è stato tolto è stata la possibilità di accostarci in maniera sovrabbondante alla Parola di Dio, seminata per ogni dove soprattutto attraverso i social, e come dubitare che questa semina porterà frutti che nessuno è ancora in grado di immaginare? Certo sono comprensibili le difficoltà di molti la cui vita di fede si alimentava di comunioni, di adorazioni, di preghiere di ogni genere, di pellegrinaggi nei più svariati santuari… ma proprio questo non deve essere interpretato come un invito ad un ritorno, senza ripensamenti e nostalgie, all’essenziale: alla Parola che Dio semina nel cuore di ciascuno e che porta frutto?
Non si può non provare un senso di tristezza nell’ascoltare da parte di alcune componenti della Chiesa Cattolica commenti, denunce, a volte vere e proprie sentenze, su un presunto pericolo di ‘protestantizzazione’, quasi che porre l’accento sul primato della Parola sia un peccato imperdonabile…, mentre invece uno dei problemi seri di oggi è aver cercato di ‘trasmettere’ e ‘mantenere per sempre’ di tutto (strutture imperiali romane e bizantine, forme cultuali paganeggianti, mediazioni filosofiche superate, mentalità inquisitorie…) tranne che l’amore per la Parola di Dio e la formazione dei fedeli per un approccio ad Essa serio e competente. Seminare la Parola è il compito fondamentale della Chiesa, così come lo è stato per Gesù, come la pioggia e la neve, venuto da Dio per fecondare gli uomini con la sua Parola, perché arrivino a compimento i desideri di Dio soprattutto nelle esistenze di credenti in cui la Parola abita e fruttifica.
“Il seminatore uscì a seminare”. Un’immagine bellissima di Dio e della forza della sua Parola, su cui Gesù ha impostato la propria missione: spargere il seme della Parola ovunque, senza volerlo imporre a tutti i costi confidando nelle proprie capacità persuasive, ma soltanto sorretto dalla convinzione della sua straordinaria bontà ed efficacia. E qui Gesù proclama un’altra beatitudine: beati voi che ascoltate e accogliete questo annuncio, che tanti avrebbero desiderato sentire, e che tanti, purtroppo, non vogliono ascoltare per la paura di dover cambiare radicalmente i propri modi di vedere e i propri stili di vita. E quando Gesù proclama una beatitudine vuol dire che ciò che annuncia fa la differenza nella vita e costituisce un nuovo punto di partenza, non ti lascia come sei, non ti riporta indietro, non conserva le cose di sempre, apre al futuro, al profondamento diverso, all’eccezionalmente più fruttuoso… chi vuole vivere questa esperienza si pone in un atteggiamento di uscita, di uscita da sé ancor prima che dalle sacrestie delle proprie convinzioni e autocelebrazioni… Quante volte Papa Francesco ci parla di “Chiesa in uscita”? Ma il primo modo di uscire è quello di rimettere al centro la Parola, di tornare ad ascoltare, di lasciarsi conquistare… Se si segue Gesù felici di essere attratti da lui, gli altri se ne accorgono, ci dice Francesco, e non c’è bisogno di uscire a fare indottrinamento, proselitismo, auto-promozione… la Parola quando è al centro conquista di suo e fruttifica in modo straripante, dando vita, laddove attecchisce, a forme diverse di ‘regno dei cieli’.
I credenti delle prime generazioni vennero presto a trovarsi di fronte, oltre ai rifiuti e alle persecuzioni, ad una inattesa difficoltà: la tiepidezza all’interno della comunità. Scriveva Giovanni alla chiesa di Laodicea (Ap 3,16): poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Un’immagine drammatica che ben ci fa comprendere la gravità della situazione. La stessa che affiora nella spiegazione/commento della parabola del seminatore: dopo che Gesù ha predicato alle folle gli Apostoli di ritrovano da soli con lui a disaminare i motivi per cui un seme così fecondo non sempre attecchisce e porta frutto (risonanza di una verifica permanente all’interno delle comunità cristiane). Il racconto qui si basa sull’uso dell’epoca di seminare il terreno incolto prima di ararlo, laddove potevano essersi formati dei sentieri, potevano essere affiorate pietre e cresciuti rovi… normale quindi che il seme potesse non attecchire dappertutto. Il racconto si fa straordinario, invece, nella descrizione della fruttificazione: una spiga nella terra di Gesù poteva portare 10 - 20 chicchi, in una stagione eccezionalmente favorevole anche 30… Gesù invece parla di una spiga che parte da 30 e può arrivare fino a sessanta e a 100… Ancora una volta il seme è vincente sulle asperità del terreno, ed è a partire da questa realtà che bisogna rileggere e far evolvere anche i propri momenti no, per non cadere in vittimismi frustranti o, peggio, sentirsi perseguitati da nemici immaginari.
Il seme è vincente… occorre ripeterlo quando il nostro cuore è impenetrabile come un terreno calpestato, quando la nostra vita è oppressa da prove che sembrano macigni, quando subiamo le seduzioni di facili successi e guadagni… Il seme è vincente… occorre ripeterlo anche quando le nostre comunità sembrano essersi inaridite per l’abitudinarietà, divenute sterili per le chiacchiere dei soliti noti, divenute spazi dominati dai primi attori, pronti a togliersi di scena se non gratificati a dovere… Il seme è vincente… occorre ripeterlo nelle nostre assemblee domenicali dominate dalla ripetitività e dallo scontato, dove si canticchiano canti fuori epoca o in stili di dubbia qualità, dove a stento si trova chi proclami le Sacre Scritture e i soliti leggono senza annunciare, dove fatta la comunione ognuno per sé e Dio per tutti…
Il seme è vincente, ripetiamocelo anche oggi, in qualsiasi stato d’animo siamo giunti a questo momento di ascolto: che la Parola torni ad esercitare su di noi tutto il suo fascino e a generare quei frutti che non sappiamo portare da soli.
Buona domenica, fra’ Mario.
Complicazioni e pesantezze … Basta, Grazie!
COMPLICAZIONI E PESANTEZZE… BASTA, GRAZIE!
Carissimi fratelli e sorelle,il brano del Vangelo di Matteo che proclamiamo in questa quattordicesima domenica del tempo ordinario ci offre un moto di esultanza di Gesù, nella forma di preghiera, per l’agire sorprendente del Padre, di cui fanno esperienza i piccoli, mentre rimane nascosto a coloro che si ritengono saggi ed esperti delle cose di Dio.
Spesso, pur prestando la massima attenzione alle parole di Gesù e cercando subito di applicarle alla nostra vita, tralasciamo di analizzare il contesto nelle quali esse sono state pronunciate, rischiando di comprenderne il significato solo in parte. Pertanto, anche oggi, dobbiamo, prima di entrare nel testo, richiamare alla nostra mente quello che Gesù stava vivendo.
Da tempo Gesù sta predicando in tanti villaggi e città e operando segni prodigiosi che dovrebbero autenticare i suoi insegnamenti sul Padre e dare inizio alle profonde trasformazioni nelle persone e nella società generate dall’avvento del Regno di Dio. Un messaggio incoraggiante e portatore di beatitudine che però non viene accolto, anzi del tutto osteggiato proprio dai maestri ebrei e dagli esperti della Legge. Lo stesso Giovanni il Battista comincia a nutrire dubbi sull’operato del maestro nazareno e promuove una sorta di inchiesta nei suoi confronti: sei tu quello che aspettavamo o dobbiamo cominciare a cercarne un altro?
La missione rischia di trasformarsi in un fallimento: la predicazione di Gesù è accompagnata da incredulità e da un rifiuto che diviene presto aperta ostilità e vera e propria persecuzione, così da una parte annuncia ai suoi discepoli che subiranno la stessa sorte, come abbiamo visto nel precedente discorso missionario, dall’altra lancia le proprie invettive contro le città che non l’hanno accolto.
Ma ecco che Gesù di fronte a tutte queste difficoltà impreviste, piuttosto che lasciarsi prendere dallo scoramento, intuisce che il Padre non l’ha mandato a fare dispute con gli esperti della Legge, ma a manifestare il suo amore ai piccoli, ai semplici, ai poveri, ai marginali che lo circondano… a tutti coloro per i quali l’insegnamento dei maestri giudei era diventato un peso insopportabile e insostenibile, generatore più di un senso di frustrazione e di stanchezza, piuttosto che un percorso di liberazione e di ingresso in una vita di intimità con Dio e di fraternità umile e gioiosa.
Dal profondo del proprio cuore Gesù innalza un intenso ringraziamento al Padre, a questo stupendo Papà, che si fa conoscere non per la via di dotti ragionamenti, ma per la vicinanza e l’accompagnamento proprio delle persone più in difficoltà, in uno stato di piccolezza, di penuria e di fragilità e perennemente sull’orlo del fallimento. Da vero credente, e cioè in comunione intima e profonda con il Padre, Gesù si presenta come l’unico che può rivelare e rendere presente e fruibile questo amore per i più semplici e umili, completamente trascurati dagli altri presunti grandi maestri.
“Venite a me, voi tutti affaticati e oppressi…”, stanchi di portare i “pesanti fardelli”, come li chiama Gesù (Mt 23,2), confezionati dagli esperti della Legge, appassionati di casistica, capaci sempre di collegare le difficoltà a colpe commesse, di sentenziare piuttosto che comprendere e sostenere. In me, sembra dire Gesù, troverete non uno che sta sempre a rinfacciare i vostri sbagli e a chiedervi ulteriori atti di eroismo, ma uno che vi farà provare la rigenerante esperienza del riposo e il sostegno ritemprante del ristoro.
E’ interessante che Gesù per spiegarsi ricorra all’immagine del giogo, di quello strumento che in genere si usava per guidare il lavoro di una coppia di buoi… se, dunque, gli altri vi impongono pesi insopportabili (il giogo dell’osservanza letterale anche della più piccola regola, in una parola: il legalismo) io, invece, mi propongo di portare il peso con voi. Prendete il “mio giogo” non sta a significare, dunque, di sottomettersi volenterosamente al peso della volontà di Dio, ma di portare in due il “giogo” della vita, laddove uno dei portatori è Gesù e l’altro ciascuno di noi o le nostre comunità. Ricordiamo qui per comprendere meglio il significato del “portare in due”, che il termine “congiunto” viene dal latino “cum iugus”, e indica appunto due persone legate dal “giogo leggero” dell’amore.
E come si fa, dunque, a diventare persone che sanno portare in due il “giogo”? Gesù ci indica due atteggiamenti fondamentali: imparate da me la mitezza e l’umiltà di cuore. Ce l’aveva già offerte come indicazioni essenziali per la vita del credente: beati i poveri in spirito, beati i miti… Ora si tratta di imparare da lui ad essere persone che non impongono agli altri il peso del proprio punto di vista e del proprio modo di comportarsi, a non essere di quelli che stanno sempre a giudicare, dimenticando pazienza e rispetto, a pretendere dagli altri, a volte persino con cinismo e arroganza, la perfezione, ignorando la compassione e la misericordia.
Imparare l’umiltà, cioè quel modo sublime di rimettere Dio al centro della propria vita, abbandonando saccenza e supponenza, i veri ostacoli di una conoscenza profonda di Dio e di una vera intimità filiale. Imparare la mitezza, cioè quel modo sublime di dare all’altro un posto centrale nella nostra vita, abbandonando l’arroganza del sentirsi superiori e di farla da padroni. Solo questi due atteggiamenti, accompagnati dall’arte preziosa della semplicità, torneranno a fare delle nostre comunità luoghi in cui, senza tante complicazioni e sproloqui, i piccoli troveranno riposo e ristoro.
Buona domenica, fra’ Mario.
IL VERO SEGNO DI RICONOSCIMENTO
Carissimi fratelli e sorelle,
finito il tempo di Pasqua e celebrate le solennità della Trinità e del Corpo e Sangue del Signore, torniamo al nostro percorso domenicale ordinario accompagnati dal Vangelo di Matteo.
Riprendiamo con un brano tratto dal capitolo 10, dove nella forma di discorso, vengono offerte alcune indicazioni di Gesù agli Apostoli sulla missione evangelizzatrice tra la gente. I versetti proposti (26-33) lasciano trasparire le situazioni di difficoltà e di opposizione vissute da Gesù, dagli Apostoli e dagli evangelizzatori delle prime generazioni.
La situazione di una persona perseguitata perché ha a cuore il vero bene del prossimo, il rispetto della dignità e dei diritti, la liberazione da forme subdole di male, è molto ricorrente nella Bibbia: basta guardare al destino di molti profeti e, in particolare oggi, a Geremia circondato da nemici, perseguitato, ma non sconfitto, forte della sua fiducia nel Signore.
Allo stesso modo Gesù, nel farsi carico dei problemi dei marginali, è andato incontro all’opposizione violenta e alla condanna a morte, prevedendo per i suoi discepoli la stessa sorte: sarete odiati da tutti (10,22) se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi (Gv 15,20).
Come comportarsi, dunque, quando per portare avanti la propria missione si va incontro a diverse forme di opposizione? Cosa dicono a noi gli insegnamenti di Gesù in un tempo in cui in diverse parti del mondo si può venire uccisi per il solo fatto di essere cristiani, mentre in occidente viene dato sempre meno valore allo spendere la vita per un ideale o al metterla a servizio del bene degli altri? In una società in cui il non appartenere più ad alcuna religione è accompagnato spesso anche dal non assumersi alcuna responsabilità all’interno della casa comune del mondo?
Alla fine del capitolo precedente Matteo ci aveva presentato un Gesù tutto preso dalla compassione per le persone che lo seguivano perché erano “stanche e sfinite (certamente non dal seguire Gesù, ma dalla vita quotidiana), come pecore senza pastore (allo sbando, diremmo noi)”… una infinità di persone di cui nessuno voleva prendersi cura, per cui Egli invita a pregare il Padre perché provveda “operai”, cioè esseri umani capaci di lasciarsi coinvolgere concretamente dalle sofferenze altrui e di “sporcarsi le mani”, non come la supponente gerarchia giudaica che aveva ridotto la religione a conoscenza intellettuale di ogni genere di precetto e ad un’osservanza meramente legalistica, centrata sulla propria bravura, per la quale si finiva man mano a poter fare a meno di Dio e del prossimo. Una preghiera forse per gli stessi Apostoli, perché liberi dall’ambizione dei primi posti e dal desiderio di ricevere gratifiche e ricompense, divenissero questo genere di operai, mossi solamente dalla compassione, pieni di umanità.
Mi ha molto colpito la lettura del libro “L’epoca delle passioni tristi”, di due analisti francesi, sul malessere e la tristezza dei giovani di fronte ad un futuro che non è più promessa, ma minaccia, che fa chiudere in se stessi e vivere nell’utilitarismo… mi viene da dire tempo di passioni tristi, di ‘passione zero’ anche nella comunità cristiana, quando non si ha come punto di partenza la compassione. Si, perché missione non significa avere l’obbligo di diffondere le proprie verità, le proprie convinzioni, il proprio modo di essere… ma innanzitutto avere compassione, “avere coraggio di essere umani”, come recita il refrain insistente della canzone di Mengoni, avere il coraggio di dare una mano non perché si è più forti, ma perché è solo insieme che se ne viene fuori.
Quali, dunque, i pericoli per chi imposta la vita a partire dalla compassione? Quali le indicazioni da seguire a gli atteggiamenti da assumere soprattutto nelle contrarietà?
Innanzitutto non avere paura degli uomini, dei tenebrosi, dei complottisti, dei distruttivi a tutti i costi, dei pettegoli e dei diffamatori, dei brontoloni ad oltranza (quanti ce ne sono anche nella nostra comunità parrocchiale ?)… la compassione di quelli che operano nella luce, nella parte visibile della casa (la terrazza) sarà sempre più forte di tutti quelli che tramano negli angoli oscuri, intrappolati nella grettezza delle proprie visioni limitate e inconcludenti.
E non avere paura di quelli che possono uccidere il corpo, ma che non possono toglierti la vita… Quando noi sentiamo le parole corpo e anima, siamo portati a pensare subito, dopo secoli di riflessione orientata più dalla filosofia che dalle Sacre Scritture, ad un corpo che muore e ad un’anima immortale di cui soltanto Dio è padrone… Gesù in effetti sta parlando di corpo e anima (soma e psiche, in greco), ma come due realtà interconnesse, due dimensioni del vivere dove c’è corrispondenza e interdipendenza tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, come a dire che gli uomini possono ucciderti ma non toglierti quello che hai dentro, le motivazioni del tuo vivere, quel tuo cuore che pulsa per Dio e che senza di Lui cesserebbe di battere e di irrorare il concreto quotidiano di compassione.
E non possiamo trascurare il fatto che oggi c’è un modo di uccidere il corpo che è proprio quello di portare le persone a prendersi cura solo o soprattutto del corpo (dall’estetica, all’alimentazione, all’abbigliamento) trascurando l’arricchimento interiore, innescando un processo di banalizzazione che sterilizza la vita e le relazioni umane e le fa diventare ‘geenna’, ‘trash’ diciamo oggi, immondizia, cose senza valore e da scartare. Ma riflettiamoci bene: anche un passero che si vende per pochi soldi è seguito dall’attenzione di Dio nel suo cadere (e non è che cade per volere di Dio…, quanti danni ha fatto questa pessima traduzione, basti citare il fatalismo paralizzante del detto ‘non si muove foglia che Dio non voglia’, a cui occorre contrapporre la splendida espressione del salmo 68 che recitiamo oggi: “voi che cercate Dio, fatevi coraggio, perché il Signore ascolta i miseri”).
Ed è proprio il sentirsi attenzionati da Dio, dunque, che mette fine a paure e schiavitù e rende liberi di spendere la vita a partire dalla compassione. E in questo si riconosce il discepolo autentico: se sa aver fiducia in Dio e dedicarsi con tutto il cuore agli altri. Questo è il segno di riconoscimento che accomuna a Gesù e rende la testimonianza non una dimostrazione muscolare o propagandistica, ma tenace e indistruttibile dedizione al bene comune. Questo è il modo in cui Gesù ci riconoscerà davanti al Padre: “Venite benedetti dal Padre mio… perché avevo fame e sete, ero forestiero, nudo, malato…” e avete avuto compassione di me. Non ci dirà: “venite voi che siete stati bravi e coerenti a tutti i costi”, ma: “venite benedetti”, cioè voi che pieni dell’amore di Dio, siete passati in mezzo alle prove della vita, anche a quelle causate dall’ostilità degli altri, senza mai rinnegare tutto quello che di bello il Vangelo ha acceso nel vostro cuore.
Buona domenica. Fra’ Mario.

PER DIVENTARE “DONO”
Carissimi fratelli e sorelle,
celebriamo oggi la “Solennità del Corpo e Sangue di Cristo”, già “Corpus Domini”, che cadeva nel passato il giovedì dopo la solennità della Trinità, rimandando come giorno direttamente al giovedì santo e alla memoria della ‘cena del Signore’, elemento portante del culto cristiano.
Prima di riflettere sulla Parola di Dio sarà bene richiamare alla nostra mente qualche motivazione storica che ha dato origine a questa festa. Il Papa Urbano IV nella bolla “Transiturus de hoc mundo” del 1264, con la quale estese la celebrazione del ‘Corpus Domini’, già in corso in alcune diocesi, a tutta la Chiesa, ribadendo “La reale presenza… nella propria sostanza… del Cristo” nella commemorazione sacramentale, invitò a farne almeno una volta l’anno, una più onorata e solenne memoria.
Le espressioni usate riflettono i termini di una questione che allora come oggi appassiona la ricerca teologica: come credere ed esprimere il “mistero” di un pane che diviene segno dell’espressione massima dell’amore di Dio per gli uomini, che rende accessibile per ciascuno la vita donata da Gesù, che unisce in un solo corpo tutti coloro che ne mangiano? E riflettono, inoltre, una ben precisa situazione: in quell’epoca erano diffuse una religiosità di tipo magico/idolatrica che vedeva nel sacro una realtà oscura da temere e onorare, da cui tenersi a debita distanza o a cui ricorrere nelle circostanze sfavorevoli (‘ostia consacrata’ compresa)… e una religiosità emozionale che aveva bisogno di vedere le cose rappresentate realisticamente, sostituendo sempre più la rievocazione sentimental/devozionale, all’ascolto delle Scritture e alla vita liturgica e sacramentale.
Il Concilio Lateranense IV, del 1215, per rimediare al fenomeno dell’abbandono della comunione eucaristica e del sacramento della penitenza introdusse l’obbligo di celebrarli almeno una volta l’anno, a Pasqua. Se questo contribuì a rimettere a fuoco l’essenziale, tuttavia poi nei secoli ha generato una mentalità diffusa a tutt’oggi di una religione concentrata sulla ‘pratica’ di un minimo necessario (il cosiddetto ‘precetto pasquale’) e distaccata dall’ascolto della Parola di Dio e dalla vita sacramentale e comunitaria. Da qui la necessità attuale di avviare percorsi che ci aiutino a recuperare una concezione di “Corpo del Signore”, passatemi l’espressione, a 360°: che includa, anzitutto, la fame di Dio, della sua parola e del suo pane, poi il desiderio di vivere in comunione fraterna con gli altri, e, infine, il lasciarsi conquistare dal fascino di Cristo per incarnare il suo stile nella vita quotidiana. Queste sono le tre indicazioni che ci offrono le letture bibliche di questa domenica.
La prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, ci offre, nella forma di discorso attribuito a Mosè, la rilettura di una tappa dell’evento dell’Esodo: Il Signore ha fatto fare agli israeliti un cammino di quarant’anni nel deserto per metterli alla prova, per sapere quello che avevano nel cuore e se erano pronti ad osservare i suoi comandi. Gli ha fatto provare la fame e la sete, pur nutrendoli e dissetandoli poi con la manna e con l’acqua sgorgata dalla roccia, per imparare a non vivere solo di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore, le parole che liberano l’uomo da ogni schiavitù e disagio.
Mi viene subito da paragonare questa pandemia a quel cammino nel deserto e da chiedermi: la stiamo vivendo come un tempo di prova che ravviva in noi il desiderio di Dio e la fame della sua parola, accolta come un dono così essenziale da non poterne fare a meno, portata con passione e nuove competenze al cuore della nostra vita, per venire liberati ogni giorno di più dalle mille schiavitù che ne offuscano la bellezza e ci allontano dalla gioia?
La seconda lettura di oggi è un brano della lettera di Paolo ai cristiani di Corinto: dopo aver proposto a loro, divisi da tante questioni e mediocri nel comportamento, di confrontarsi con le prove del popolo nel deserto e di evitare di cadere negli stessi errori, in particolare quello dopo aver mangiato e bevuto del cibo di Dio di tornare ad una vita pagana a servizio degli idoli, centrata sulla ricerca esclusiva del proprio piacere, Paolo annuncia il fondamento di un’autentica vita di fede: Bere al calice e condividere il pane spezzato è comunione al sangue e al corpo di Cristo, una comunione così profonda che permette ai credenti di essere conformati al suo corpo e di divenire, pur essendo molti, un solo corpo.
Nei nostri territori la frequenza all’Eucaristia è ormai molto bassa e durante il ‘lockdown’ siamo stati privati della possibilità di celebrarla insieme. A tutti, e in particolare a coloro che stanno tornando, chiedo: Quali sono le motivazioni che ci spingono a partecipare di nuovo? Con quali criteri scegliamo la celebrazione a cui partecipare (L’orario più comodo, la durata dell’omelia o della celebrazione, la simpatia e le affinità con chi la presiede, la corrispondenza ai propri gusti, o alle competenze acquisite in particolari percorsi formativi, delle modalità celebrative (tentazione specifica dei movimenti ecclesiali)? Quanto è presente in noi la consapevolezza che il vero Corpo del Signore non è solo l’ostia consacrata e consumata, ma anche la comunione fraterna dei molti che se ne alimentano?
Infine, nel prologo del suo Vangelo Giovanni annuncia: Il Verbo di Dio si è fatto carne perché chiunque lo accoglie possa diventare figlio di Dio. Nel brano di oggi, tratto dalla catechesi ambientata nella sinagoga di Cafarnao, con un linguaggio particolarmente duro per i giudei (mangiare la carne e bere il sangue), ci viene detto che l’incarnazione del Verbo di Dio non consiste solo nell’aver assunto carne umana, ma nel fatto che essa è diventata carne e sangue, cioè vita, cioè l’esistenza intera, donata per gli altri: questo è l’agnello pasquale, questo è il pane del cielo che dà la vita eterna, intesa non come quella che inizia dopo la morte, ma quella oltre la quale non ce n’è una più bella, più desiderabile e significativa: la vita di Dio: donarsi. E’ questo che Gesù ci comunica, quindi, attraverso il pane e il vino, il suo corpo e il suo sangue: non solo il dono della sua vita, ma anche lo stile da assumere per vivere realmente da figli di Dio, in piena comunione con il maestro.
Fratelli e sorelle, è proprio questo l’elemento essenziale sul quale noi oggi dobbiamo verificarci, soprattutto di fronte alle sofferenze e alle povertà già in essere e alle nuove generate dalla pandemia, e cioè sullo “stile eucaristico” della nostra vita, che deve basarsi non tanto sul numero delle volte che andiamo a messa e ‘prendiamo’ la comunione in osservanza ai precetti… ma sull’assimilazione progressiva di questo orientamento di vita: come Cristo si è donato per me, anche io voglio donarmi per gli altri. Tanti torneranno oggi ad avere fame e sete di Dio se incontreranno queste Eucaristie viventi: persone nutrite dalla Parola e dal Corpo e Sangue del Signore e trasformate in dono, per sempre, per tutti, con gioia immensa.
Fra’ Mario