Umili e miti sognatori -S.Francesco 2020
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa ventisettesima domenica del tempo ordinario celebriamo la solennità di San Francesco, particolarmente sentita per noi francescani, come per tutti i cristiani e per l’umanità intera, soprattutto in questi ultimi anni in cui il Papa che ha preso il suo nome ci sta proponendo di assimilare sempre più orientamenti e stili di vita fondati sulla cura del creato, il riscatto dei poveri, e la fratellanza universale… questa oggetto della sua ultima Enciclica, firmata proprio in questo anniversario della morte del santo, davanti alla sua tomba.
Nella Liturgia della Parola ci vengono proposte alcune scritture scelte apposta per farci entrare nei fondamenti della spiritualità di Francesco d’Assisi.
La prima lettura ci offre un testo sapienziale di Gesù, il figlio di Sirach, che loda il Sommo Sacerdote Simone, figlio di Onia, per aver restaurato il Tempio di Gerusalemme, definendolo astro del mattino, luna piena e sole sfolgorante… attributi questi che l’agiografia francescana (lo stesso Dante parlando della nascita dell’assisiate dirà nel canto XI del Paradiso: “nacque al mondo un sole”) attribuirà a Francesco, al quale il Signore stesso chiederà di “riparare la sua casa” (FF 1411), e che lo stesso Papa Innocenzo III vide (in visione o in sogno) mentre sorreggeva la Chiesa del Laterano perché non crollasse (FF1460). Davvero la via evangelica dell’umiltà, della povertà e della fraternità è una della colonne portanti della Chiesa.
Nel brano della lettera ai Galati, scelto come seconda lettura, Paolo afferma che ciò che conta nella vita non è avere i segni dell’appartenenza ad una cultura ‘mondana’ o ad una religione, ma essere una ‘nuova creatura’, assimilata al Cristo: “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo”. Lo stesso Francesco riceverà in dono i segni della passione e dell’amore più grande nel suo corpo sul monte della Verna (FF 485). “Uomo veramente cristianissimo” (FF1240) che ha voluto conformarsi in tutto al Cristo, al punto da essere indicato come un “alter Christus”, cioè conquistato dall’ideale di essere come Gesù, trovando nel Vangelo quel tesoro prezioso che rende pienamente felici. Questo non significa certo che Francesco sia l’unico o il miglior modello di vita cristiana, anzi egli con la sua testimonianza sprona ciascuno di noi a trovare con l’originalità e i doni che ci sono propri, la nostra strada per vivere nella fedeltà al Vangelo.
Il brano di Vangelo che ci viene proposto in questa solennità è tratto dal capitolo 11 di Matteo e ci offre la lode esultante di Gesù al Padre (nel passo parallelo di Luca – 10,21-22 – è scritto che “esultò di gioia nello Spirito Santo”) che nella sua misericordia si fa conoscere non dai dotti e dai sapienti, ma dai piccoli. Si fa conoscere e sperimentare per quello che è: Padre tenero e compassionevole, grande nell’amore, che in Gesù, spogliatosi di quelle prerogative che siamo soliti attribuire a Dio quali l’onnipotenza e la grandezza, si è fatto servo fino al dono totale di sé nella morte di croce. Piccoli, dunque, non vuol dire ingenui e sempliciotti, ma svuotati di sé, del proprio egoismo, per donarsi pienamente agli altri. Francesco d’Assisi nel Testamento, lo scritto che non solo manifesta le sue ultime volontà ma anche esprime ciò lui è diventato dentro, dirà di sé: “piccolino” (il più piccolo dei frati) e “vostro servo” (FF 131), nella piena consapevolezza che il farsi piccoli coincide con il farsi servi degli altri, e in ciò si manifesta autenticamente l’amore.
Oltre ai piccoli Gesù volge la sua attenzione agli “affaticati ed oppressi”: in quel momento egli si riferiva a quelle persone stanche di essere appesantite da tutti quei precetti da osservare alla lettera a cui i maestri dell’epoca avevano ridotto le Parole di Dio, oggi noi potremmo allargare lo sguardo a tanti generi di fatica e oppressione (ivi compreso la devastante pandemia in corso)… l’invito di Gesù è per tutti lo stesso: per trovare ristoro imparate da me ad essere miti e umili di cuore, fatevi carico con me di questo giogo dolce e leggero, come tutte le cose vissute con compassione e condivisione. E’ ancora San Bonaventura a dirci che questo era il segreto di tutto il bene presente in Francesco: “Da architetto avveduto, egli volle edificare se stesso sul fondamento dell’umiltà, come aveva imparato da Cristo” (FF1403), e la Leggenda dei tre compagni racconta che Francesco desiderava che anche la vita di tutti i frati fosse piena di opere buone, tanto che diceva ad essi: “tutti siano attirati alla pace, alla bontà, alla concordia dalla vostra mitezza”.
Carissimi fratelli e sorelle, all’inizio di questo nuovo anno pastorale accogliamo quanto lo Spirito ci suggerisce attraverso queste sacre scritture e la testimonianza di Francesco e cerchiamo di elaborarlo sia con la riflessione personale sia scambiando le nostre idee almeno con le persone a noi più vicine, per trarne quelle indicazioni che ci permettano non di organizzare più cose, ma di vivere quei passaggi che ci vengono richiesti nell’avvicinarci al Giubileo del 2025 per attuare la “conversione missionaria” della nostra comunità parrocchiale.
La mia sensibilità e la mia esperienza mi portano a dire che senza una conoscenza più profonda della Sacre Scritture, attraverso un ascolto più assiduo, un metodo di lettura in linea con le competenze di oggi, una meditazione accompagnata dalle riflessioni di buoni “padri spirituali” (sia antichi che contemporanei), una risonanza condivisa… non si va da nessuna parte, per cui tornerei a focalizzare questo come primo e urgente impegno della nostra comunità, sperando di contare sulla disponibilità e la collaborazione di tutti, e in particolare di coloro che hanno già qualche buona esperienza al riguardo (sia all’interno delle realtà ecclesiali di appartenenza, sia in esperienze formative quali dieci comandamenti o cammini di spiritualità).
Le indicazioni del cammino diocesano ci chiedono anche quest’anno di porre l’attenzione sull’”entrare in relazione” con le persone del nostro territorio e “ascoltare con un cuore contemplativo le loro storie di vita”, tramite contatto individuale, a “tu per tu”. Io penso che questo esercizio di fraternità sia bene praticarlo innanzitutto a partire dall’interno della nostra comunità, rivolto non solo a coloro che già ci sono intimi, ma soprattutto a quelli con i quali ci conosciamo superficialmente (anche se pensiamo di avere le idee chiare su di loro). Oltre a superare reciproche chiusure preconcette e un appiattimento sul ‘formalmente corretto’, questo potrebbe aiutarci a uscire definitivamente da un modello di parrocchia (qui affermatosi in questi ultimi 50 anni) basato sulla coesistenza coordinata di realtà autonome, di cammini di ‘nicchia’, di appartenenze legate più all’amicizia con questo o quel presbitero, che ad una partecipazione matura e responsabile… ed educarci a vivere nell’armonia delle diversità, nella collaborazione per avanzare verso gli obiettivi comuni e accompagnare i desideri e le necessità delle persone, nella convergenza su metodologie di evangelizzazione adeguate alla realtà di oggi.
“Saremo disposti a cambiare gli stili di vita?” e a uscire dall’atrofia del cuore riaprendoci a quei desideri che lo allargano e in cui è possibile “discernere la voce di Dio”? ci chiede il nostro Vescovo Francesco. Se in un contesto come quello che stiamo vivendo non ce la sentiamo più di essere sempre allo stesso punto o di ripetere le stesse cose degli anni precedenti, non lasciamoci prendere dalla depressione: “I sogni si costruiscono insieme”.
Buona anno pastorale a tutti, fra’ Mario.
Andare a trasformare
Carissimi fratelli e sorelle,
un’altra bellissima parabola da meditare in questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, che ha ancora come protagonista un padre, due figli, una vigna e l’esistenza rovesciata.
Nel capitolo ventuno Matteo ci racconta di Gesù che arriva a Gerusalemme per la festa di Pasqua: un ingresso trionfale per il “profeta che viene da Nazareth”, che libera il tempio da mercanti e cambiamonete, guarisce ciechi e zoppi, viene osannato dai bambini al punto da suscitare l’indignazione dei capi dei sacerdoti e degli scribi. E, infatti, il giorno dopo Gesù viene messo sotto inchiesta dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo: “con quale autorità fai queste cose?”. “E con quale autorità battezzava Giovanni?” replica Gesù, e non ricevendo risposta racconta allora questa parabola del padre e dei due figli.
Siamo, dunque, in un contesto apertamente polemico… le controversie avvenute qua e la nel corso del ministero in Galilea qui raggiungono la fase culminante e diventano una netta contrapposizione, dai toni accesi e, da parte dei capi giudei, sempre più violenti fino all’emissione della sentenza di morte. Perché si arriverà a questo? A noi che conosciamo la storia di Gesù, e tante possibili diverse interpretazioni della sua vicenda, sembra ormai quasi scontato che Egli dovesse morire per noi, che non ci fosse altra strada per espiare i nostri peccati… Ma il sogno di Gesù era quello di vedere questo mondo trasformato nel Regno di Dio, per questo annunciava con chiarezza e determinazione i sentimenti e i comportamenti che piacciono a Dio, e detestava e criticava tutto quanto riteneva non fosse in sintonia con il progetto del Regno. Quando il Regno avrebbe cominciato a prendere vita sarebbe avvenuto un vero e proprio rovesciamento: molti dei primi, ascoltavamo domenica scorsa, sarebbero diventati ultimi e gli ultimi primi, e addirittura i pubblicani (appaltatori delle imposte per i romani) e le prostitute sarebbero passati avanti, letteralmente ‘avrebbero preso il posto’, ai capi dei sacerdoti, agli anziani e agli scribi, cioè alle più alte gerarchie ebraiche, come ascoltiamo nel Vangelo di oggi.
Cosa contestava Gesù alle autorità ebraiche? La parabola di oggi, come tante altre del maestro galileo, contrappone le decisioni e i comportamenti dei peccatori convertiti a quelle di coloro che sono peccatori come tutti gli altri, ma pensano però di non esserlo affatto e non sentono il bisogno di cambiare. Un padre chiede al primo figlio di andare a lavorare nella vigna, questi risponde svogliatamente di no, ma poi ci ripensa e va a lavorare. Lo chiede al secondo figlio e questi risponde subito si con entusiasmo, ma poi non ci va. Quali di questi due è in sintonia con i desideri del padre? “Il primo” rispondono i capi dei sacerdoti. “Quali di questi due pensate di essere?”, avrebbe potuto aggiungere Gesù, e invece tira subito la conclusione a cui abbiamo già accennato: voi siete di quelli che dicono si, ma fanno no, per questo pubblicani e prostitute, che hanno cambiato il loro no in si, prendono il vostro posto nel Regno di Dio, in questo mondo da costruire a partire dalla compassione e dalla misericordia.
Certamente questa non è tanto una sentenza definitiva, che non sarebbe nello stile di Gesù, ma piuttosto l’invito a cambiare quegli stili di vita non in linea con i desideri di Dio, quali il privilegiare l’apparire all’essere e la rigidità interiore che impedisce ogni cambiamento. Un invito che va accolto non con le cifre del moralismo, per cui la coerenza diventa più importante dell’apertura del cuore, né del narcisismo autoreferenziale, in cui la compiacenza per ciò che si presume di essere porta alla chiusura in se stessi, al disprezzo degli altri, all’incapacità di lasciarsi interpellare dalla realtà che ci circonda.
Per appartenere al Regno di Dio, quindi, non sono sufficienti i “sì di facciata”, quelli che poi in realtà potrebbero divenire dei no, come quei si che non sono accompagnati da un coinvolgimento integrale del proprio cuore, della propria persona, e sorretti da una profonda ricchezza interiore. Così come non sono sufficienti quei “si, a condizione che…”, che sembrano piuttosto richiedere una legittimazione dei propri comportamenti buoni, che esprimere quel tratto caratteristico di una fede autentica che è l’aprirsi alle sorprese di Dio e sperimentare quel miracolo straordinario che è la trasfigurazione integrale della propria esistenza, di cui la conversione dal male al bene è senz’altro un passo importante (come afferma il profeta Ezechiele nella prima lettura: il malvagio che si converte certamente vivrà), ma la cui meta è quella di avere in sé “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Paolo ai Filippesi, seconda lettura di oggi).
Il rimprovero rivolto da Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo di non essersi lasciati cambiare dal profondo dalla predicazione sua e del Battista e di non aver accolto l’invito a passare da una religiosità esteriore, fondata sull’esibizione di preghiere ed elemosine e non sull’adesione del cuore, e legalistica, limitata al rispetto del tradizionalisticamente corretto e disattenta a quel mondo unico e perennemente da ascoltare che è ogni persona, come sempre rimbalza sulla vita delle nostre comunità che, a distanza di troppi anni dalla predicazione del Vangelo, corrono il rischio di mantenere vive mentalità ottuse e atteggiamenti elitari, che con esso hanno ben poco a che fare.
Passare ad un “Sì” consapevole, motivato, totale (cioè capace di orientare una volta per tutte la propria vita secondo il Vangelo) è l’obiettivo che ogni credente deve porsi e anche ogni comunità di credenti… l’invito infatti è quello di andare a lavorare nella “vigna”, immagine usata nelle scritture in riferimento al popolo ebraico e da Gesù al popolo dei credenti in Lui… e che oggi leggiamo ancora con maggiore apertura riferendola a tutta l’umanità, al mondo in cui viviamo, in questo villaggio globale dove non esistono più vicino e lontano, ma tutto è responsabilità di tutti, la sussistenza di problemi, come l’avanzamento verso una realtà in cui il bene sia veramente per tutti. In questa prospettiva, essere di quelli che partendo da una posizione negativa via via si fanno sempre più volenterosi e decisi ad impegnarsi, significa non semplicemente tornare ad essere più osservanti dei comandamenti e più praticanti del culto, ma anche liberarsi di forme nelle quali hanno preso il sopravvento la smania di potere, gli interessi economici, la conservazione di espressioni di fede folkloristiche e sempre più insostenibili.
“Vai/andate a lavorare nella vigna” è un invito, ancor prima di passare al piano operativo, a porci la domanda: di quale tipo di cristiani ha bisogno il mondo di oggi perché ci sia ancora spazio per quelle trasformazioni insperate che noi sappiamo essere nei desideri di Dio? E’ la nostra comunità parrocchiale può dirsi uno spazio in cui queste trasformazioni sono già in atto?
Buona settimana, fra’ Mario.
Che cosa stai facendo di veramente buono ?
Carissimi fratelli e sorelle,
vorrei iniziare la riflessione sul Vangelo di questa venticinquesima domenica del tempo ordinario con qualche domanda: e se Dio fosse profondamente diverso da quello che ci è stato insegnato dalla nostra religione, come dalle altre, e dall’idea che ce ne siamo fatti? E che vita sarebbe quella dei cercatori di un Dio diverso da quello annunciato e dato per conosciuto? E in che cosa Dio potrebbe essere del tutto diverso rispetto a quanto già intuito su di Lui?
L’assoluta diversità di Dio rispetto al modo di pensare e di agire degli uomini è uno degli annunci più importanti contenuti nella predicazione dei profeti (nella prima lettura di oggi Isaia dirà in nome di Dio: i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie) e dello stesso Gesù, che ha polemizzato più volte con i maestri giudei proprio sul tema dell’identità di Dio e della conseguente impostazione della società e della vita delle persone, con particolare avversione verso tradizioni e mentalità diffusamente radicate tra la gente del suo tempo, ma ritenute quantomeno lontane da una concezione sostenibile di Dio.
Verso la metà del capitolo diciannovesimo Matteo ci racconta dell’incontro tra Gesù e un giovane molto religioso, osservante dei comandamenti, benestante e desideroso di continuare a vivere anche dopo la morte… Sappiamo come andò a finire: Gesù gli propose una visione totalmente diversa dell’esistenza: vendi tutto e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi, ma il giovane si allontanò triste. Quando è difficile scegliere tra il Dio che fa di te una persona libera integralmente e capace di grandi responsabilità e la rassicurante dipendenza dalle cose! Lo stesso Pietro, nella situazione opposta a quella del giovane, ancora una volta nel ruolo di chi cerca di capire altro da ciò che andrebbe capito, chiederà: ma noi che abbiamo lasciato tutto per seguirti cosa ne avremo in cambio? Cento volte di più di quello che avevi e la vita dell’Eterno, risponderà Gesù, precisando che ciò è dovuto all’immensa bontà di Dio, e non ai meriti acquisiti con il proprio comportamento. Per questo molti dei primi saranno ultimi (quelli che fanno affidamento sulla propria bravura e sui propri meriti) e gli ultimi i primi (coloro che sono esclusivamente oggetto della misericordia di Dio).
Ed ecco a supporto di questa incredibile affermazione sui rovesciamenti operati da Dio la parabola di oggi del padrone della vigna e della paga offerta agli operai chiamati a lavorarci nelle diverse ore della giornata, dove reale e paradossale si intersecano proprio per portarci a comprendere qualcosa sulla “diversità” di Dio.
La parabola si apre come tante altre con l’espressione “Il regno dei cieli è simile”, a chiederci fin dall’inizio un attenzione particolare perché si sta parlando non del mondo come lo costruiscono e lo organizzano gli uomini, ma come lo vorrebbe Dio, il padrone di casa che fin dall’alba esce per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna pattuendo con loro la paga di un denaro.
Questo padrone, prosegue Gesù, continua ad uscire… nelle ore del mattino ci potrebbe anche stare… ma qual è il senso di prendere ancora operai pure verso le cinque del pomeriggio, orario in cui la giornata lavorativa finisce?
E poi la sera la paga, a partire dagli ultimi, quelli del tardo pomeriggio, che ricevono un denaro come i primi, quelli dell’alba… Beh, forse a questo punto anche noi come gli ascoltatori di quel giorno avremmo protestato e preteso dal padrone un comportamento diverso, e una paga consona alle energie profuse dagli operai… e allora anche a noi Gesù rivolge la domanda in nome di Dio: perché vedi con occhio cattivo che io sia buono? (Nella traduzione della CEI leggiamo: sei invidioso perché io sono buono?). E con questa domanda Gesù sembra volerci chiedere di fare una volta per sempre una scelta di campo: o continuare a credere nel Dio superpotente, che detta le regole del gioco, che non ammette infrazioni, che premia e castiga in base ai propri meriti… o credere in un Dio immensamente buono, che ritiene lecito essere buono con tutti e sempre e soprattutto con gli ultimi, cioè i primi ad aver bisogno del suo amore.
Allora, qui, credo, siamo in grado di comprendere perché a seconda dell’idea che abbiamo di Dio cambierà anche il nostro modo di stare al mondo… Con la sua domanda infatti Gesù sembra dirci non solo: ma perché non riesci a credere che Dio sia immensamente buono?, ma anche: ma perché non riesci ad essere buono come Dio è buono con te? E’ qui che la vita di un cercatore di Dio viene rovesciata: non stiamo al mondo per rispettare regole (che nel tempo diventano sempre più desuete), accumulare crediti per accedere al premio finale o invocare raccomandazioni per evitare castighi per i nostri errori… ma ci stiamo come persone conquistate dall’immensa bontà di Dio e che si adoperano perché quel mondo di ultimi, di scartati, di privati del diritto all’essere innanzitutto amati, diventi un mondo di primi, di amati per primi (e non di primi della classe).
O crediamo che Dio è così, l’immensamente buono, e cerchiamo di essere come Lui per costruire un mondo basato sull’amore, la compassione e la misericordia, o la nostra ricerca di Dio, o quel complesso di certezze che chiamiamo fede, o quell’insieme di osservanze e di riti che continuiamo a ripetere perché esprimono la nostra appartenenza ad una religione, diventano qualcosa di profondamente sterile e inutile, forse eticamente e filosoficamente corretti, ma incapaci di rovesciare la nostra esistenza e il corso della storia.
Vorrei, in conclusione, sottolineare un altro aspetto di questa parabola, a partire dalla domanda del padrone della vigna rivolta a quelle persone incontrate per strada a mattino inoltrato: “perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente?”. Potremmo accogliere questa domanda alla luce di quella trasformazione in atto nella chiesa che, dopo secoli passati a conservare come immutabili e perennemente validi formule e schemi collegati invece a situazioni storiche e culturali di epoche diverse, vuole tornare a mettere al primo posto la passione per la missione, affrontando con responsabilità le sfide di oggi, forte di quell’enorme risorsa che è il confidare nella bontà di Dio e nell’essere misericordiosi come lui.
L’assassinio di Don Roberto Malgesini, pochi giorni fa, che molti chiamavano il “prete degli ultimi” e che il suo vescovo ha definito “martire della misericordia”, fa risuonare in noi ancora più forte la domanda: “perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente?”. E forse in questa nostra assemblea domenicale abbiamo bisogno davvero di scuoterci… per primi noi che ci sentiamo a posto in coscienza perché non manchiamo mai ad una messa festiva… che ci confessiamo regolarmente anche se non bestemmiamo, non rubiamo, non ammazziamo e non abusiamo del sesso… che facciamo regolarmente le nostre preghiere e qualche elemosina… Ma oltre a tutto questo cosa facciamo di autenticamente e immensamente buono?
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
“UN CUORE SEMPRE PIU’ GRANDE DI OGNI OFFESA”
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa ventiquattresima domenica del tempo ordinario concludiamo la lettura del discorso comunitario nel capitolo 18 di Matteo, che oggi ci offre uno dei più grandi insegnamenti del Vangelo: la misericordia di Dio è senza limiti e così deve essere quella dei discepoli.
Nel libro della Genesi ( cap. 4) Caino, dopo aver ucciso il fratello Abele, viene maledetto da Dio e condannato a lavorare senza frutto e a vivere come un fuggiasco. “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!” dice Caino a Dio, eppure, anche se è un assassino nessuno avrà il diritto di togliergli la vita, anzi, dice Dio: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte”. Un discendente di Caino, Lamech, stimandosi molto più violento del sua avo dirà: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette».
Forse, proprio riferendosi a questo racconto, il Vangelo di oggi, giocando allo stesso modo con il numero sette, ribalta completamente la visuale: non è la vendetta che va perpetuata in eterno, ma è il perdono che va offerto sempre e per sempre. Perché?
Già nei secoli precedenti la nascita di Cristo i grandi sapienti come Confucio e Budda insegnavano che la via verso la felicità e la pace non poteva prescindere dalla compassione, dalla rinuncia alla vendetta e dal perdono. Anche la tradizione religiosa ebraica e il pensiero sapiente, di cui troviamo espressione nel brano del libro del Siracide, prima lettura di oggi, affermano la necessità di evitare come cose orribili rancore, ira e vendetta e perseguire la via del perdono per poter ottenere misericordia da Dio.
Anche domenica scorsa l’insegnamento di Gesù sulla correzione fraterna partiva dal presupposto che Dio non vuole che nessuno si perda, quindi anche i discepoli devono avere la stessa attenzione correggendo il fratello che sbaglia e usando misericordia verso di lui. Il brano di oggi si apre con la richiesta di un approfondimento del tema da parte della comunità, come al solito con una domanda messa in bocca a Pietro: “Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. La domanda dimostra che due cose erano state ben comprese: che bisogna perdonare e che bisogna perdonarsi, cioè che se bisogna perdonare chi ci arreca offese, chiunque esso sia, ancor più bisogna perdonare il “fratello”, colui che ci vive accanto e fa parte della nostra stessa comunità. Quante volte ?
I rabbini del tempo insegnavano l’opportunità di perdonare fino a tre volte… Pietro va oltre portando il numero delle volte a sette (espressione nel linguaggio biblico di pienezza)… Gesù, giocando a sua volta con i numeri, come è tipico della cultura ebraica, rispondendo “7x10x7” esprime la sua convinzione che il massimo della perfezione è perdonare sempre. Perché? Non si tratta qui solo di una perla di saggezza o di una via per ottenere la pace nel cuore, né di un consiglio o una buona raccomandazione, ma di una profonda professione di fede: perché Dio perdona sempre, perché Dio perdona l’impossibile, perché Dio da sempre l’opportunità di ricominciare. E se Dio agisce così con noi, altrettanto noi dobbiamo fare con i suoi figli, i nostri fratelli.
Già al capitolo sesto al termine del Padre nostro a commento della richiesta “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” Gesù diceva “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”. Questo “perdonare per essere perdonati” non va certamente letto come l’invito a fare ogni sforzo possibile, altrimenti c’è il rischio di essere esclusi dalla misericordia di Dio, anzi siamo chiamati a prendere coscienza che Dio vive di “misericordia preventiva”, ancor prima che noi possiamo offenderlo o commettere degli errori Egli già ci accompagna con la sua misericordia e noi non solo dovremmo essergli grati ma dovremmo imparare a vivere da “misericordiati misericordiosi” (come ci veniva proposto nel cammino ecclesiale diocesano): “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
Perché bisogna perdonare? Quante volte? A che condizioni? Gesù non vuole semplicemente rispondere a queste domande, ma vuole portarci oltre, ad essere persone che mettono la misericordia e il perdono al primo posto, che vivono la beatitudine dell’essere misericordiosi, che non stanno lì a contare le volte o a dettare le condizioni, ma che sono consapevoli che c’è un solo modo per evitare fratture insanabili: avere misericordia per gli altri come Dio è misericordioso con ciascuno di noi.
Laddove non fosse abbastanza evidente l’insegnamento di Gesù espresso attraverso il ricorso alla simbologia delle cifre, ecco la bellissima parabola del re misericordioso e il servo spietato. Anche qui i numeri parlerebbero da soli: un amministratore era debitore verso il suo re di diecimila talenti. Un talento corrispondeva a circa 36 kg d’oro e a 6000 denari. La paga di un salariato era di un denaro al giorno. Quindi a questo amministratore per rifondere il debito sarebbero occorse 60 milioni di giornate lavorative, pari a 164.000 anni di lavoro, davvero una cosa inimmaginabile. Eppure il re davanti alle suppliche del suo amministratore ne ebbe compassione e gli condonò quel debito immenso e inestinguibile. Ma ecco che quest’uomo, incontrando un suo subalterno che gli doveva appena cento denari, un debito estinguibile con poco più di tre mesi di lavoro, non prova nessuna pietà e lo fa gettare in prigione. Più che logica la conclusione del re appena venuto a conoscenza del comportamento del suo amministratore: “ma non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno come io ho avuto pietà di te?”, e lo consegnò agli aguzzini. Conclude Gesù: il Padre celeste farà così con voi se non perdonerete di cuore al vostro fratello.
Credo che l’unico commento possibile sia quello di rivedere subito tanti nostri comportamenti e la presunzione di essere in diritto di negare all’altro il perdono. L’aver insistito per secoli nella predicazione nel presentare Dio come il giudice impassibile e giusto perché alla fine premia i buoni e punisce i cattivi ci ha allontanati dalla buona notizia offerta da Gesù: è vero che alla fine il bene trionferà sul male, come in tanti brani delle Sacre Scritture ci viene annunciato con un linguaggio di genere apocalittico, ma questo avverrà perché la misericordia di Dio sarà sempre più grande di tutto il male commesso dagli uomini. Annunciare il trionfo del bene separandolo dal trionfo della misericordia genera quelle distorsioni della fede che chiamiamo fondamentalismo, fanatismo, giustizialismo… distorsioni che affiorano ancora oggi nel cristianesimo come in tante altre religioni.
Occorre allora che ciascuno di noi, in quanto credente, si riscopra umilmente debitore nei confronti di Dio, da Lui condonato gratuitamente e per questo spogliato di ogni forma di arroganza e di ogni pretesa di rivalsa nei confronti degli altri. Sarebbe bello che sulle porte delle nostre chiese comparisse la scritta: casa della misericordia. Si entra portando ciascuno il peso delle proprie colpe, la delusione per i propri fallimenti, le lacerazioni dovute al male ricevuto… se ne esce rigenerati dalla misericordia di Dio e dei fratelli, persone nuove con il “cuore sempre più grande di ogni offesa”.
Buona domenica, fra’ Mario.
LA SINFONIA DELLA MISERICORDIA E DELLA FRATERNITA’-XXIII anno A
Carissimi fratelli e sorelle,
il brano di Vangelo che proclamiamo in questa ventitreesima domenica è tratto dal ‘discorso ecclesiale’ del capitolo diciottesimo di Matteo e ci offre alcune indicazioni di Gesù sulle relazioni fraterne all’interno della comunità, nel caso specifico in cui siano incrinate da una colpa commessa da qualcuno e ci sia bisogno di ispirarsi alla bellezza della sinfonia della comunione.
“Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…” A noi che abbiamo ascoltato il discorso della montagna verrebbe spontaneo dire “perdonalo”, come vedremo anche domenica prossima proseguendo nella lettura del capitolo 18. Ma oggi quello che è interessante è che ci viene proposta una prassi da seguire quasi in via ordinaria per poter crescere insieme all’interno della nostra comunità. Perdonare è l’ideale altissimo a cui tutti ci ispiriamo e che poi va tradotto in un percorso quotidiano di attenzione reciproca, di accompagnamento, di dialogo, di maturazione.
“Ti ho posto come una sentinella”, dice Dio al profeta Ezechiele, e hai il compito di fare arrivare al cuore di chi porta avanti una condotta malvagia la mia parola perché si converta, altrimenti se dovesse morire per la sua iniquità tu ne sarai responsabile. Lasciando appunto a Dio il discernimento di condotte malvage, credo sia bella questa idea del vivere a fianco agli altri con l’atteggiamento vigile della sentinella che veglia sul bene dei singoli e della comunità. L’obiettivo è quello di ‘guadagnare un fratello’, di fare in modo che non si perda, che la comunità non se lo perda.
“Se il tuo fratello…”, non uno qualsiasi o un estraneo, ma proprio la persona che ti sta vicino, che appartiene alla tua stessa comunità. E’ un’espressione di grande realismo: ciascuno di noi non è mai esente dalla possibilità di fare all’altro del male e non esisterà mai una comunità perfetta in cui non si sbaglia mai… quindi piuttosto che assumere un atteggiamento sprezzante o di piena indifferenza nei confronti di chi può aver sbagliato occorre, senza giocare a fare gli offesi, ispirarsi alla logica del fare il primo passo, del non chiudersi nel silenzio, ma tentare di tutto per riallacciare la relazione.
Tante volte nelle nostre comunità usiamo i termini “correzione fraterna”, ma spesso alludiamo al fatto che per amore della verità abbiamo il dovere di correggere chi sbaglia, magari anche in forma caritatevole senza offendere e mortificare… spesso affiorano sulle nostre labbra espressioni del genere: io gliel’ho detto, poi faccia come crede… non è più un bambino… ma quando l’altro sbaglia verso di te non devi solo fare in modo che ne sia consapevole e non lo faccia più, ma occorre ristabilire una relazione profondamente umana e fraterna. L’antica prassi riproposta nel Vangelo di correggere a tu per tu, o alla presenza di due o tre testimoni, o davanti a tutta la comunità ha lo scopo di evitare che l’altro finisca per diventare come un pagano o un pubblicano, magari ancora degno d’amore, ma tenuto a debita distanza.
Il ritorno qui della formula del ‘legare e sciogliere’, legata all’uso ci comminare o estinguere una pena corrispondente alla colpa commessa, e il fatto che ciò che viene operato sulla terra è ben presente a Dio, suona come un invito ad agire nei confronti dei fratelli con grande responsabilità, a comportarsi con loro allo stesso modo in cui si comporterebbe Dio, misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore (salmo 103). Una prassi di autentica correzione fraterna va portata avanti con la consapevolezza di stare agendo in nome di Dio, che si è portatori del suo perdono, che è sempre fonte di recupero e di rinascita delle persone. Questo richiede di esercitare la massima creatività nel ricercare le modalità concrete per praticarla, di fare proprio di tutto perché il fratello si corregga e ritrovi nella possibilità di relazioni autentiche con gli altri fratelli la via del proprio sviluppo interiore e umano.
Per un recupero pieno del fratello e di buone relazioni con lui, occorrono allora oltre alla retta intenzione e alla sincerità, l’umiltà, il rispetto, la pazienza, la lungimiranza, la speranza, cioè la capacità di saper attendere e preparare l’arrivo di un buon frutto anche in tempi lunghi. Occorre confidare nella forza della preghiera personale e comunitaria. “Se due di voi si metteranno d’accordo”, saranno in comunione, capaci di una preghiera ‘sinfonica’, “nel chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. “Qualunque cosa”, quanto più dunque, nel caso specifico, il recupero della persona e la rinascita di relazioni fraterne. Laddove non dovesse portare a buon fine il ricorso a due tre testimoni, saranno certamente efficaci due tre persone riunite nel nome del Signore, attraverso le quali il Signore stesso si fa presente e agisce.
“Dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, parola dell’Emmanuele, il Dio con noi, il Dio che sarà sempre con noi. Questo significa che anche nell’affrontare i casi più difficili possiamo confidare sulla presenza amorevole ed efficace del Signore, come anche che solo quando siamo in comunione tra noi, solo quando siamo una comunità di riconciliati, allora rendiamo presente il Signore e viviamo nella luce della sua Parola. Laddove siamo tentati a volte di far valere a tutti i costi le nostre ragioni, creando disaccordo e tensioni all’interno della comunità… laddove un errore dell’altro nei nostri confronti ci sembra un ostacolo insormontabile… siamo chiamati a riaccordare i nostri strumenti e ad eseguire insieme la sinfonia della misericordia e della fraternità.
Buona domenica, fra’ Mario.