Risorse da non sciupare
Carissimi fratelli e sorelle,
continuiamo in questa trentatreesima domenica del tempo ordinario la lettura del capitolo 25 di Matteo con la lettura di un’altra parabola molto conosciuta, quella dei talenti.
Come abbiamo già visto domenica scorsa riflettendo la parabola delle dieci ragazze che partecipano al corteo nuziale, le comunità cristiane nel momento in cui il Vangelo viene redatto stanno vivendo un momento particolare: esse sono in attesa del ritorno glorioso del Signore in mezzo a loro, che però tarda a venire. Così in quella parabola si dice che lo “sposo tardava”, in quella di oggi dei talenti che il padrone ritornò “dopo molto tempo”, e nella descrizione del giudizio finale non c’è accenno al tempo in cui esso avverrà: “quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria”, ma trattandosi appunto del giudizio definitivo questa venuta va di per sé collocata non da un momento all’altro ma in quello conclusivo della storia. Torna allora la domanda: come comportarsi nel frattempo, pur tenendo lo sguardo puntato sulla realtà di un compimento finale sia della propria vita che della storia?
La risposta non è così scontata né risolutiva, tanto è vero che ci viene indicata attraverso parabole, attraverso elementi allusivi e a volte anche paradossali, offerti forse per provocare più un atteggiamento di apertura e di prontezza verso i vari scenari che possono aprirsi, piuttosto che rinchiudersi nella presunzione di avere l’unica risposta valida e non negoziabile. Quando tornerà il Signore e cosa avverrà al suo ritorno? Questa domanda che fa da sfondo ai due testi del Vangelo e della seconda lettura di oggi e che manifesta la speranza di chi aveva vissuto con Gesù di vedere al più presto realizzata la sua promessa di un prossimo ritorno e con esso della trasformazione definitiva del mondo, oggi non desta più lo stesso interesse non solo all’interno di un mondo secolarizzato in cui la fede “non fa più parte dei presupposti del vivere comune” (papa Francesco), ma probabilmente all’interno dello stesso mondo credente, così spesso incapace di una vita all’altezza delle grandi cose attese, ma sempre rimandate, se non addirittura ostacolate.
Eppure, proprio in questo tempo in cui certezze e determinazione ad impegnarsi per qualcosa che vada oltre la dimensione dell’appagamento immediato si liquefanno, è più che mai necessario rimettere a fuoco desideri profondi e necessità reali, definire in base ad essi gli obiettivi da raggiungere, e costruire su di essi le motivazioni che indirizzano il proprio cammino quotidiano, in cui si intrecciano entusiasmo e fatica, impegno e disillusione, realizzazioni e fallimenti. La parabola di oggi può essere di grande aiuto in un percorso del genere a condizione che non vi si approcci con una mentalità moralistica (Dio ti chiederà conto di quello che fai), o persino giustizialista (Dio te la farà pagare per tutti i tuoi sbagli), o con quell’atteggiamento religioso disincarnato per cui tutto è rimandato ad un’altra vita dopo questa. Abitiamo nella storia di tutti i giorni nella consapevolezza, per coloro che ne cercano il senso, che questa non è la ragione ultima della nostra esistenza: come vivere il presente, ciò che è già e fa presto a diventare ciò che è stato, in connessione con il nostro futuro prossimo e remoto, che ancora non è e che spesso arriva molto più tardi di quanto speriamo?
Il Regno di Dio, con i suoi obiettivi e gli stili di vita da assumere, questa realtà, questo sogno, questo principio dinamico che già fermenta l’oggi, ma il cui compimento è sempre oltre il prossimo futuro, Gesù lo paragona ancora ad un ricco signore che partì per un viaggio che sarebbe durato “molto tempo” e che lasciò tutto il suo patrimonio in mano a tre suoi amministratori, a ciascuno secondo la propria capacità. Due di questi contagiati dalla fiducia e la generosità con cui il padrone li aveva coinvolti nel progetto, con spirito di iniziativa raddoppiarono il capitale, meritando la lode del signore al suo ritorno. Il terzo riconsegnando il capitale così come lo aveva ricevuto, senza aver tentato nulla per paura e per pigrizia, venne cacciato via. A chi di questi vale la pena di somigliare?
La comunità nella quale il Vangelo di Matteo ha preso forma scritta non ha avuto dubbi nell’avere in avversione il comportamento dell’ultimo amministratore, probabilmente con l’affievolirsi della speranza di un ritorno immediato del Signore, in alcuni dei suoi membri era prevalso un atteggiamento di pigrizia e di disimpegno, paragonabile ad un vero e proprio fallimento e meritevole dell’espulsione dalla comunità. Allo stesso modo le nostre comunità sono chiamate a verificarsi sull’intensità della propria passione e del proprio impegno, consapevoli che si finisce per perdere del tutto quello che non si è capaci di far crescere (a chi non ha verrà tolto anche quello che ha).
Come sempre una parabola offre non soltanto una sua “morale”, ma apre diverse piste di riflessione attraverso l’analisi dei molteplici particolari. Vorrei soffermarmi un attimo sull’immagine del ricco signore che si assenta per molto tempo… Nella parabola essa indica la distanza di tempo (pensata come breve dalle prime comunità) tra la morte/risurrezione e il ritorno glorioso del Signore… Ai nostri giorni essa può stare ad indicare un po’ tutta la storia, vista come lo spazio in cui gli uomini sono chiamati ad amministrare con frutto il patrimonio che il Signore ha messo nelle loro mani, la sua assenza prolungata è infatti un invito esplicito ad agire in suo nome, quindi con responsabilità, e con la stessa creatività e passione. Questa assenza però nel nostro tempo sta generando l’attitudine a vivere come se lui non ci fosse o come se si possa tranquillamente fare a meno di lui… Come possono i credenti affrontare questa nuova sfida e testimoniare che la fiducia nel Signore è molto più costruttiva del lasciarsi guidare solo da emozioni e opinioni?
Anche l’immagine dei talenti merita un ulteriore approfondimento: essi non rappresentano, infatti, le qualità della persona, che essa deve sforzarsi di far fruttificare per avere una ricompensa, ma le risorse immense che Dio mette a disposizione di ciascuno… anche un solo talento era una moneta che la maggior parte degli uomini al tempo di Gesù non potevano permettersi di possedere, corrispondeva alla paga di seimila giornate lavorative, ossia di circa venti anni, una vita… l’uomo che credeva di non avere abbastanza forze per farlo fruttare ha buttato via la sua vita, vittima delle sue frustrazioni (pianto e stridore di denti). Sarebbe bastata la gratitudine, lasciarsi guidare dal criterio offerto da Gesù agli apostoli per poter affrontare la loro missione: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). E’ solo la gratitudine che permette di valorizzare le risorse per il bene di tutti, senza cedere alla tentazione di appropriarsene. In ogni epoca, in ogni vita, in ogni cultura Dio ha seminato risorse immense… quali sono quelle del nostro tempo che non dobbiamo assolutamente sciupare?
Vorrei concludere questa riflessione, fratelli e sorelle, applicando la parabola a questo tempo particolare di attesa e di rimandi che stiamo vivendo a causa della pandemia. Per la salvaguardia della salute di tutti siamo costretti a fare a meno di tante cose, non si può uscire di casa, non ci si può incontrare, abbracciare… a molti sta mancando persino l’opportunità di lavorare e di assicurarsi il necessario… in ambito ecclesiale ci sono addirittura persone che sono in ansia perché non sanno quando potranno celebrare il battesimo, la cresima o la prima comunione… ma quando a certe impostazioni o certi appuntamenti, la cui scadenza è dovuta più all’abitudinarietà che alle convinzioni, non è possibile dare continuità… quali sono le risorse alternative che stanno sostenendo non tanto l’attesa del ritorno alla normalità, ma la speranza di un passaggio a nuove mentalità e nuovi stili di vita?
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
Svegli con le fiaccole accese
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa trentaduesima domenica del tempo ordinario leggiamo un brano del Vangelo di Matteo tratto da quella sezione in cui egli ha raccolto gli insegnamenti di Gesù sugli avvenimenti degli ultimi giorni e sugli atteggiamenti da assumere in vista di essi, redatti ancora una volta nella forma di discorso, che viene chiamato “escatologico” (da ‘escaton’, cioè ultimo), esattamente il quinto dei cinque grandi discorsi contenuti nel vangelo (forse come richiamo esplicito ai primi cinque libri della Bibbia, fondamenti della religione ebraica, così come i cinque grandi discorsi di Gesù sono fondamenti del discepolato). In particolare iniziamo la lettura del capitolo 25 contenente le parabole delle dieci vergini e dei talenti e la descrizione profetica del giudizio finale.
Nel capitolo nove, in una controversia con i farisei sul digiuno, Gesù diceva: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno”. Con questa frase Gesù affermava se stesso come lo sposo messianico che realizza la nuova alleanza con Dio, ma anche come lo sposo che verrà tolto di mezzo con un ingiusto processo e la condanna a morte, momento ormai quasi giunto nella pagina di vangelo che stiamo leggendo oggi.
Gesù, inoltre, aveva anche annunciato, con la sua risurrezione anche la “parusia”, cioè il suo ritorno glorioso e permanente in mezzo ai suoi, in un giorno conosciuto solo dal Padre, giorno comunque atteso come imminente dai suoi discepoli e dalle comunità da loro fondate, lo stesso Paolo, scrive ai tessalonicesi: “noi che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore” (1Tes 4,15), come leggiamo nella seconda lettura di oggi. Giorno, tuttavia, che al tempo in cui vangelo viene redatto non è ancora arrivato. Aspettare ancora o archiviare il tutto come una splendida ma ormai finita avventura?
Se la domanda era legittima allora figuriamoci oggi, a circa duemila anni di distanza, immersi in un processo sempre più veloce e irreversibile di marginalizzazione delle religioni o comunque dotati di competenze che ci permettono di demitizzare molti aspetti della nostra vita religiosa: dobbiamo davvero aspettare ancora come imminente un ritorno del Signore e la fine di un mondo a lui ostile? O dobbiamo essere anche noi, come le generazioni precedenti, armati di tanta pazienza nell’attesa di un evento che potrebbe compiersi fra migliaia o milioni di anni? E se riteniamo ancora sostenibile questa attesa, che tipo di rilevanza essa può avere in questo preciso momento storico, che Papa Francesco ci invita a leggere come un “cambiamento di epoca” e di veloci trasformazioni del modo di vivere?
In altre parole, fratelli e sorelle, pur prestando una compassionevole attenzione a quei pochi psicolabili che anche in questa pandemia intravedono un segno anticipatore dell’imminente fine del mondo, credo che anche qui il discorso porti la nostra attenzione non su eventi terrificanti che ormai sappiamo essere una caratteristica del genere narrativo apocalittico, ma sul senso profondo del nostro modo di stare al mondo, sugli obiettivi che sentiamo possano dare compimento al nostro cammino quotidiano. Non per niente Gesù inizia la parabola delle dieci vergini pronte per partecipare al corteo nuziale ancora una volta (e sarà anche l’ultima) con l’espressione: “il regno dei cieli”, che è lo stesso che dire il “regno di Dio”, e che indica questo stesso mondo in cui tutti viviamo, nel quale i cercatori di Dio, coloro che si mettono sotto la sua signoria, cercano di essere lievito della crescita del bene, sale della fratellanza che insaporisce il vivere insieme, luce che permette la visione e l’armonizzazione di tutti i colori.
In ogni tempo, allora, i cercatori di Dio, dai discepoli della prima generazione a noi e a quelli della nuova epoca che sta iniziando, sono paragonabili a quelle ragazze non ancora sposate che, secondo gli usi ebraici, aiutavano la sposa nei preparativi della prima notte di nozze: il rituale bagno di purificazione, l’indossare la veste nuziale, l’adornarsi di gioielli, l’attesa dello sposo che venisse a prenderla verso sera per portarla nella propria casa, accompagnati dal corteo nuziale in cui esse avevano il compito di illuminare la strada con le loro fiaccole. Paragonabili, dunque, i credenti a dei soggetti attivi, mobilitati da uno spirito di festa e attenti alla cura di ogni piccolo particolare. Altrimenti, dice Gesù, si rischia di fare la fine di quelle cinque ragazze che fecero la stupidaggine di non prendere con sé abbastanza olio in previsione di un ritardo dello sposo e non solo non fecero in tempo a partecipare al corteo nuziale ma arrivarono a festa finita, con gli sposi ormai chiusi nella loro stanza nuziale a consumare la loro la prima notte d’amore.
“Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” è la conclusione tirata da Gesù. All’inizio del capitolo successivo Matteo racconta che terminati questi discorsi (tra i quali la parabola delle dieci vergini) Gesù disse: “tra due giorni è Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”, quindi qualche giorno dopo Egli consapevole dell’arrivo della sua ora chiederà a Pietro e ai due figli di Zebedeo nell’orto degli ulivi “restate qui e vegliate con me”. Allontanatosi per pregare da solo tornerà da loro poco dopo trovandoli addormentati e dirà a Pietro “Così non siete stati capaci di vegliare un'ora sola con me?”. E sì, proprio nel momento cruciale, in cui Gesù si abbandonava completamente alla volontà del Padre, essi si erano addormentati, fallendo l’obiettivo di accompagnare il Maestro all’appuntamento decisivo, alle nozze messianiche compiutesi sulla croce, in cui Egli ha offerto la sua vita per l’umanità.
“Vegliare”, dunque, non significa evitare di farsi trovare impreparati da eventi imprevisti quali potrebbero essere la fine improvvisa della vita o del mondo, ma essere pronti nei momenti decisivi, quelli nei quali bisogna dare prova della propria fedeltà e offrire il meglio di se stessi. Il credente vigilante, allora non è una persona terrorizzata dall’incertezza degli eventi futuri o che si rassegna tristemente di fronte all’inevitabilità dell’evoluzione di talune situazioni, a volte anche drammatiche, o che cade in depressione provando un senso di impotenza di fronte alle grandi sfide della vita… tutt’altro… egli è “vigilante” perché non lascia spegnere le grandi intuizioni che orientano la sua vita, perché non rinuncia ad avventurarsi in quei nuovi spazi di ricerca di Dio e di servizio del prossimo che apre il desiderio, perché sa discernere sempre ciò che conta davvero e sa impegnarci sopra le energie migliori.
Per vivere questo tipo di “vigilanza”, per essere pronto ad accogliere il Dio che “viene incontro” nei passaggi decisivi della vita, il credente, allora, non deve mai farsi trovare senza olio: l’olio della sapienza e del discernimento, del desiderio e della ricerca, della pazienza e della lungimiranza, della disponibilità e dell’operosità, della passione e della carità. Olio che non va mendicato dagli altri, né acquistato da venditori a buon mercato, ma attinto a quel frantoio inesauribile, a quella luce sempre accesa che è la Parola di Dio, la sola capace di liberare da ansie e paure e di trasformare i tanti imprevisti della vita in liete sorprese.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
Il sogno dei Santi della porta accanto
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa domenica, già di per sé giorno di gioia e di vita, celebriamo la solennità di tutti i Santi, una festa particolarmente sentita da tutti noi, forse anche perché vicina alla memoria di tutti i nostri cari defunti, cioè le persone che ci hanno amato e che abbiamo amato intensamente nella dimensione biologica della vita, e con le quali continuiamo a mantenere una saldo legame proprio perché crediamo nella santità di Dio, nel suo essere fonte di vita e di bene per noi, chiamati all’esistenza per godere insieme del suo amore, nel presente e per sempre.
Quindi oggi non è la festa di tutti coloro che sono stati bravi o di persone privilegiate che hanno dei poteri particolari, ma, ancora una volta è la festa di Dio, “il tre volte Santo” (Is 6,3; Ap 4,8), cioè l’assolutamente trascendente, Colui che per le sue prerogative (eterno, onnipotente, onnipresente…) è sempre distinto da tutto il resto, Colui che fa quanto impossibile alle sue creature che, tuttavia, non tiene a distanza, ma alle quali partecipa la sua vita, il suo amore, la sua gioia. Il Dio biblico è l’essere che non gode narcisisticamente della sua perfezione, destinando tutto il resto alla scomparsa, ma è il Santo e il Santificatore, il Bene e il Benefattore, il cui splendore consiste nel rendere splendide le sue creature.
Giovanni nella sua prima lettera (seconda lettura di oggi) ci invita, appunto, a vedere, cioè pensare a Dio per quello che Lui è davvero e quindi riconoscerlo come Colui che ci ama di un amore immenso, per il quale noi siamo realmente suoi figli e un giorno saremo pienamente simili a Lui. Quindi Dio è il Santo non perché è il temibile e l’irraggiungibile, ma perché è l’unico che può fare dell’uomo un essere simile a Sé, dare piena realizzazione ai suoi desideri, portarlo a diventare quello per cui è stato chiamato all’esistenza: essere sul pianeta presenza (immagine) di Dio, suo partner essenziale in quel processo di avanzamento verso la pienezza di bene e di gioia, meta del cammino di ogni vivente e dell’universo intero.
E’ questo il sogno, il progetto, il senso delle cose, che l’autore dell’Apocalisse (Giovanni?) consegna alla comunità cristiana, e cerca di tener vivo anche in un momento di grande persecuzione e sofferenza, attraverso il racconto di visioni come quella contenuta nella seconda lettura di oggi in cui una moltitudine immensa, che non si può contare, che ha condiviso con il Cristo il dono della vita, innalza a Lui e al Padre il grido di vittoria per aver sperimentato la potenza del suo amore. Una lettura di quel momento storico che fa innalzare lo sguardo al giorno conclusivo della storia, giorno della trionfo di Dio e della piena e definitiva partecipazione di tutti i suoi figli alla sua vita per sempre.
Festeggiare tutti i Santi, dunque, non è un atto dovuto di devozione verso personaggi che ci stanno a cuore per la loro particolarmente ricca e originale esperienza spirituale o dai quali ci aspettiamo favori speciali (mentalità questa molto diffusa e piuttosto paganeggiante), ma riconoscere la signoria di Dio sulla nostra vita e la nostra storia, che si riempie di cose meravigliose nella misura in cui sappiamo umilmente e fiduciosamente abbandonarci a Lui, come proclama l’inno del Magnificat, di Maria e di ogni santo, cioè di ogni credente: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono!”. E noi facciamo parte di questa immensa famiglia di “misericordiati”, in cui i Santi sono per noi “amici e modelli di vita” (come preghiamo nel prefazio).
Anche questa ultima affermazione è un rimando non tanto alle qualità morali dei Santi, quanto alla centralità del Cristo nella loro vita. Diceva Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici se fate ciò che io vi comando” (Gv 15,13-14). Amici di Cristo, vite donate, modellate dall’ascolto della sua Parola… questo è ciò che siamo chiamati a fare ciascuno di noi, fratelli e sorelle, sulle orme dei Santi, riconosciuti tali dalla comunità ecclesiale, e di quegli innumerevoli “Santi della porta accanto”, come scrive Papa Francesco nell’Esortazione “Gaudete et exsultate”: “Nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante”. È questa la “santità della porta accanto”.
Come si vive questa “santità della porta accanto”? La liturgia della Parola di oggi ci indica il modo più concreto possibile offrendo alla nostra riflessione la pagina meravigliosa del Vangelo di Matteo delle Beatitudini. Una delle pagine più affascinanti e più commentate, un vero e proprio cantiere di indicazioni per una vita riuscita e felice, che dobbiamo approfondire ogni giorno di più, senza togliere loro la brillantezza originaria con la moltiplicazione delle nostre parole di commento.
Certo non si può non osservare con un po’ di amarezza come a motivo della familiarità dei cristiani di oggi più con certe formule del catechismo che non con il testo del Vangelo essi magari ricordino a memoria, anche se a fatica, più qualcuno dei dieci comandamenti che non qualcuna delle Beatitudini. E’ più facile citare il quinto comandamento: non uccidere, o il settimo: non rubare… che non la quinta beatitudine: beati i misericordiosi, o la settima: beati gli operatori di pace. Sicuramente i comandamenti sono regole fondamentali, tutte le società organizzate e tutte le religioni ne hanno, e la maggior parte di essi sono comuni a tutte loro, essi servono per orientare le persone a basare le loro scelte su grandi valori umani e a vivere nel massimo rispetto reciproco… regole che ogni persona civile e moralmente retta cerca di non trasgredire per non fare il male e subire la correzione o la punizione che ogni trasgressione comporta. Le Beatitudini, invece, non sono regole e non impongono nulla. Esse propongono uno stile di vita che fa essere felici e non solo persone dal comportamento corretto e ineccepibile, esse non vietano nulla ma invitano alla creatività, ad inventare percorsi e ad assumere comportamenti originali per dare vita a tutto il bello e il buono possibile.
In altre parole le Beatitudini sono un invito a vivere non semplicemente da persone ‘normali’, ma da ‘risorti’, da uomini ‘nuovi’, cioè da Santi. Matteo ce lo comunica già con la forma letteraria offrendoci la proposta fondamentale di Gesù in ‘8’ frasi. 8, appunto, nella simbologia cristiana è il numero della risurrezione, con il quale si è scelto di chiamare il giorno dopo il settimo, dopo il sabato: l’ottavo giorno, il giorno del Risorto. Le Beatitudini sono, passatemi il linguaggio, l’unica ‘fotografia’ che abbiamo del Crocifisso Risorto, che ha vissuto anche Lui situazioni di lacrime, di angoscia, di persecuzione, ma ne è uscito vincente per la fiducia incrollabile nel Padre e per il suo stile di vita mite, misericordioso, pacifico. Uno stile di vita che ogni cristiano è chiamato ad assumere e farne, come dice Papa Francesco, la propria ‘carta di identità’.
Il primo passo? Gesù dice: “beati i poveri in spirito”. Beati cioè coloro che lo Spirito rende poveri di sé e pienamente disponibili all’azione di Dio, grazie a loro il Regno dei cieli, un mondo tutto altro da questo, comincia ad essere presente tra gli uomini, e la felicità, la consolazione, la mitezza, la misericordia, la pace e la giustizia ad esservi stabilmente di casa.
Auguri a tutti voi, fratelli e sorelle, “Santi della porta accanto”, felice di condividere con voi questo grande sogno.
fra’ Mario.
Nientaltro che amare
Carissimi fratelli e sorelle,
continuiamo a leggere in questa domenica la sezione del Vangelo di Matteo che riporta i tranelli tesi a Gesù per trovare qualcosa di cui accusarlo e per cui condannarlo a morte, come verrà detto al capitolo 26, al termine dei discorsi tenuti da Gesù dentro e fuori il tempio: “tennero consiglio per catturare Gesù con un inganno e farlo morire” (26,4).
La condanna a morte poteva essere decretata per le violazioni di diversi precetti, tra le quali ad esempio la bestemmia (Lev 24,15), il mancato rispetto del riposo sabatico (Es 31,15), l’idolatria (Deut 13,6), l’adulterio (Lev 20,15), ed altre ancora… Gesù, appunto, fu condannato a morte per bestemmia, come leggiamo in Mt 26,65-66.
La domanda di oggi posta da un dottore della legge, personaggio di grande autorità, “qual è il grande comandamento?”, non ha, dunque, l’obiettivo di intavolare una controversia di carattere dottrinale o morale, ma, appunto, di trovare il motivo preciso per cui condannare Gesù, maestro e profeta che affermava di basare la sua autorità sulla sua particolare relazione con Dio, che lo metteva in condizione di essere un nuovo legislatore e di potersi addirittura proclamare Signore del Sabato (Mc 2,28).
Gesù in realtà aveva già dichiarato di “non essere venuto per abolire la legge” (Mt 5,17), ma si è sempre dimostrato contrario alla riduzione della relazione con Dio ad una osservanza esteriore e legalistica di precetti (ben 613 ne avevano stilati i maestri ebrei). Per questo, piuttosto che rispondere con precisione alla domanda citando uno dei comandamenti, sposta l’attenzione su ciò che da valore all’osservanza della legge, che non è tanto il rispetto della regola in sé, ma l’atteggiamento interiore basato sulla scelta di mettere Dio e il prossimo al centro della propria vita.
Per fare questo ricorre alla citazione di due passi della Scrittura: la prima frase è tratta da quel brano fondamentale per la fede d’Israele, popolo dell’ascolto, la cui parola iniziale “Shemà” (che significa ‘ascolta’) viene usata per indicare la professione di fede che il credente ebreo imparerà a ripetere più volte al giorno: “il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze” (Deut 6,4-5); la seconda dal “Codice di Santità”, parte del libro del Levitico così chiamata per l’invito ricorrente a essere Santi perché Dio è Santo e rende Santi: “amerai il tuo prossimo come te stesso” (19,18).
Con questa risposta Gesù vuole innanzitutto evitare l’intento di intavolare una discussione accademica e sterile volta a stilare una scala gerarchica dei comandamenti in base al loro valore o alle diverse tesi sostenute dalle varie scuole rabbiniche ed evitare inoltre di cadere nella trappola di una risposta che potesse dare adito ad interpretazioni tendenziose… piuttosto che mettersi a fare il dottore che sa offrire risposte risolutive e indiscutibili o l’espositore di opinioni brillanti, Egli è il profeta che richiama chi lo ascolta a cercare orientamenti fondamentali per la vita. Niente è più importante allora di collocare al primo posto un amore appassionato e totalizzante per Dio e per il prossimo, l’unica realtà che può dare un senso e un obiettivo agli impegni quotidiani.
La legge non è un percorso obbligato da seguire, un ulteriore peso insopportabile da portare, ma un dono di Dio, nella forma di parole che offrono all’uomo, situazione per situazione, l’ispirazione per essere suo amico e vivere nel bene e nella gioia. Dio è Colui che apre una strada e non colui che rinchiude in una gabbia. Per questo, afferma Gesù, è fondamentale amarlo con tutto se stessi, cioè con il cuore, la volontà, l’anima, la vitalità dei desideri e la mente, l’orientamento costante del pensiero (è interessante notare che Egli ha preferito la parola “mente” a “forze”, com’è detto nel testo deuteronomico, forse per l’allergia nutrita verso la mentalità farisaica che si è amati da Dio non gratuitamente, ma per i propri sforzi), e bisogna amarlo nell’unico modo concreto possibile: amando il proprio prossimo.
Amare Dio e il prossimo! Due orientamenti fondamentali per la vita che Gesù definisce “simili”, non nel senso che si possa scegliere indifferentemente tra l’uno e l’altro, ma nel senso che uno non può essere separato dall’altro, che uno senza l’altro non è in grado di condurre la persona ad una piena e autentica maturità spirituale e umana. L’evangelista Giovanni, qualche anno più tardi, definirà come “nuovo” (Gv 13,34) questo comandamento, non nel senso del contenuto, che l’amore del prossimo era già insegnato da tante altre religioni, ma nel senso di ciò che rimane di veramente essenziale di tutto quello che c’è stato, che da oggi è definitivo, sul quale puoi giocarti la vita una volta per sempre. Correlazione ed essenzializzazione che Giovani esprime in modo brillante nella sua prima lettera (1Gv 4,20-21): “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello”.
E questo è tutto! Tutto quello che c’è da dire sulla questione posta capziosamente dal Dottore della Legge, ma non solo, dice Gesù: “da questo dipendono tutta le legge e i profeti”, cioè questo è ciò che dà e che è il senso di tutta la Sacra Scrittura (‘legge e profeti’ come la chiamavano al suo tempo). Mai, credo, sia stata fatta una sintesi più affascinante di tutta la Bibbia, Essa sta tutta in questa due Parole: amare Dio e amare il prossimo, con tutto lo stesso amore che si riceve gratuitamente da Dio, con il quale si ha cura di se stessi e che si vorrebbe ricevere dagli altri.
Davvero non c’è nulla di più importante da aggiungere se non il passare ai fatti. Anche se mi sembra doveroso, come suggerisco ormai da tempo, che proprio nel mezzo di questa pandemia che ci ‘impone’ di essenzializzare e di prenderci cura come non mai del nostro prossimo in difficoltà, avviare quei processi che ci permettano di staccare definitivamente la spina da mentalità, situazioni e stili di vita che poco hanno a che fare con il vangelo della prossimità e della fratellanza universale.
Buona settimana, fra’ Mario.
Potere o fraternità
Carissimi fratelli e sorelle,
nelle domeniche precedenti abbiamo ascoltato una serie di parabole raccontate da Gesù all’interno dell’area del Tempio di Gerusalemme e indirizzate ai farisei, alle componenti più autorevoli di questa corrente religiosa: i capi dei sacerdoti e gli anziani, nelle quali veniva costantemente prefigurata la loro esclusione dal Regno dei cieli, cioè da quel mondo nuovo inaugurato da Gesù, a motivo della loro ristrettezza di vedute e delle contraddizioni presenti nel loro comportamento.
Da oggi ascoltiamo il racconto del contrattacco portato dai farisei nei confronti di Gesù: essi si riunirono in consiglio per vedere di trovare il modo di screditare la sua predicazione e la sua persona presso i molti che stavano ad ascoltarlo (e dei quali avevano paura), cercando nei suoi discorsi qualcosa di errato rispetto alla dottrina tradizionale e al loro insegnamento, su cui imbastire un vero e proprio processo.
La prima questione sulla quale essi pensarono di far cadere Gesù nella loro trappola non fu tuttavia su un tema religioso ma, oggi diremmo, di carattere populista: dopo averlo riconosciuto come maestro veritiero, cioè credibile, e autentico, che non va alla ricerca del gradimento altrui, gli chiedono: è lecito o no pagare le tasse ai romani (il tributo a Cesare), occupanti illegittimi di Israele? Una trappola, ci fa notare Matteo, tesa in modo subdolo: i capi dei farisei neanche si presentano di persona, ma inviano dei loro discepoli (ostili ai romani) insieme agli erodiani (collaborazionisti), due gruppi che non andavano d’accordo tra loro ma si ritrovano uniti nel complotto contro il nemico comune, e presentano a Gesù una moneta romana che in realtà era proibito introdurre nel Tempio. Il senso della trappola è chiaro: se Gesù avesse risposto ‘sì’ avrebbe riconosciuto la signoria di Cesare proprio nel luogo della signoria di Dio e perduto il favore della folla, se avesse risposto di no lo si poteva accusare di ribellione nei confronti dei romani (come verrà tentato grazie a falsi testimoni nel processo prima della crocifissione) e farlo arrestare.
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, sottolinea Matteo, innanzitutto smaschera il loro atteggiamento ipocrita: pur essendo all’interno del Tempio essi portano con sé delle monete straniere proibite, e poi proprio a partire da questo particolare offre una risposta di non facile interpretazione, al punto che sorpresa dalle sue parole quella delegazione è costretta a ritirarsi. Di chi è l’immagine e a chi è dedicata l’iscrizione sulla moneta del tributo? Di Cesare! “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
E’ questa una delle frasi più celebri di Gesù, alla quale sono stati dedicati un’infinità di commenti e alla quale sono state richieste lungo i secoli tutta una serie di indicazioni sulla presenza e l’attività dei credenti nel mondo. Si tratta solo di un bell’artificio, di una risposta non risposta… o di un principio sul quale regolare i rapporti tra Dio e Cesare (epoca romana), tra Chiesa e impero (medioevo), tra Chiesa e stato (epoca moderna)?
In realtà Gesù, come aveva già fatto altre volte, per non cadere nel tranello adotta la stessa tecnica dei farisei e ricorre ad una specie di sofisma, un gioco di parole, una sorta di enigma, una risposta che altro non è che un’ulteriore domanda e la provocazione a non affidare alle parole la soluzione di un problema, ma a cercarla nel più intimo di se stessi, nella sfera della convinzioni più profonde e delle motivazioni, a partire dai propri desideri ma pienamente aderenti alla realtà e a quel fine supremo che è la ricerca del bene, cioè di Dio, e la sua attuazione attraverso l’amore del prossimo e la realizzazione del bene comune.
Quindi più che un parere sulla questione della legittimità della tassa imposta dall’occupante, Gesù offre una risposta che operando una distinzione netta tra Cesare (con le cui monete i farisei trafficano, ma si rifiutano di renderle nella forma di tassa) e Dio (il cui potere i farisei usurpano o amministrano male, vedi le parabole precedenti) spinge il credente a verificarsi sulla propria scelta fondamentale di porsi sotto la signoria di Dio, da questa infatti dipende il proprio modo di stare al mondo, il proprio stile, e il modo di relazionarsi con gli altri e con le cose. Rendere a “Dio quello che è di Dio” significa riconoscere di appartenergli completamente, offrire a Lui la parte migliore di se stessi, acquisire libertà, equilibrio, saggezza nella gestione degli impegni e negli obblighi della vita sociale.
Nessuno più di noi conosce bene quante situazioni difficili abbia attraversato (e attraversi ancora) l’umanità quando Cesare pretende di essere Dio… la proliferazione di dittature, i pubblici incarichi finalizzati al raggiungimento del massimo di potere da conservare a tutti i costi e con tutti i mezzi, le regole del convivere dettate dagli interessi dei più forti, il controllo della vita altrui e la negazione dei diritti fondamentali delle persone; e situazioni non meno problematiche vengono a crearsi quando i credenti in Dio assumono lo stile di Cesare… basta guardare la fatica che fa la Chiesa Cattolica a liberarsi di strutture, forme, titoli e persino stili celebrativi che scimmiottano quelli dei potenti della terra… per non parlare dei vari tipi di scandali in cui sono coinvolti gli uomini di Chiesa che perdono di vista, appunto, di essere sotto la signoria di Dio e non di esserne i sostituti o i rappresentanti legali o amministratori delegati.
Anche se sarebbe stato legittimo attendersi da Gesù una parola critica nei confronti della dominazione romana, tuttavia ci è facile comprendere che Egli ci fa fare un salto oltre la contingente situazione storica: un mondo alternativo a quello in essere è possibile iniziare a costruirlo solo quando si assimila lo stile di Dio, lo stile proprio di Gesù, uomo lontano da ogni forma di potere, che non ha fatto mai ricorso a sotterfugi ma ha messo tutte le sue energie a servizio del bene degli altri.
Costruire un mondo alternativo non significa, ancora, dover dare vita ad un altro mondo oltre a questo (che spesso si finisce solo per creare solo delle nicchie consolatorie) o dopo di questo (che spesso genera un atteggiamento di fuga, di disimpegno e desiderio di paradisi immaginari) ma vivere le realtà portanti come l’attività politica, amministrativa, lavorativa… con la trasparenza e la lealtà, con l’umiltà e la determinazione, con la generosità e l’inventiva di chi ha nel cuore la stessa passione di Dio per il bene di tutti i suoi figli. Le nostre comunità, pur con tutti i loro limiti, dovrebbero aspirare ad aprire spazi di Regno di Dio tra gli uomini e farsi sempre più luoghi educativi in cui è possibile respirare e assimilare lo stile di Dio con cui vivere i propri impegni quotidiani.
In questa domenica in cui in tutte le comunità cristiane celebriamo la giornata missionaria, attuando questa grande colletta con cui sovvenire alle necessità delle chiese più povere, ci è ancora più facile comprendere l’invito di Gesù a stare al mondo non con lo stile di Cesare ma con quello di Dio, per diventare, come propone il tema di questa giornata e come ci chiede la sorprendente enciclica di Papa Francesco, degli appassionati “tessitori di fraternità”.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.