Voce per raccontare Lui

III DOMENICA DI AVVENTO Anno B
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa terza domenica di attesa sempre più gioiosa della venuta del Signore, ancora una volta, il personaggio che ci guida all’incontro con Lui è Giovanni il Battista. Il brano di Vangelo che leggiamo è tratto dal prologo del Vangelo di Giovanni che ce lo presenta in modo solenne come “un uomo mandato da Dio”, il “testimone della luce”, la “voce che grida nel deserto” annunciata da Isaia, il battezzatore che “conosce”, cioè già crede, in Colui che “viene dopo di lui”… uno, insomma, autorevole e credibile, capace di discernere le vie di Dio, la sua presenza tra noi e lo stile da assumere per accoglierlo nella propria vita.
Giovanni il Battista è uno che affascina, che attira le folle, che ha un seguito di discepoli entusiasti. Vive e svolge la sua attività in una zona in cui è forte la presenza degli Esseni, un gruppo ebraico dissidente da cui sono nate delle comunità di tipo monastico, composte da celibi che vivevano la comunione dei beni e si dedicavano allo studio della Parola di Dio, nell’attesa del Messia che avrebbe ridato vita al regno terreno del Dio d’Israele. Per questo i farisei istruiscono nei confronti di Giovanni un’inchiesta e viene mandata da lui una delegazione perché egli chiarisca la sua posizione: chi sei? Cosa dici di te stesso? Perché battezzi?
Domande incalzanti alle quali Giovanni avrebbe potuto rispondere esibendo credenziali e curriculum, difendendo la legittimità della propria predicazione e del proprio operato… Invece, lui quasi quasi si fa da parte per annunciare qualcuno più importante di lui, che già è presente, ma di cui essi non conoscono la vera identità. Veniamo così introdotti in una delle tematiche più ricorrenti del Vangelo di Giovanni: i farisei manifesteranno sempre un viscerale rifiuto nei confronti della persona di Gesù perché non ne conoscono, cioè non vogliono riconoscere, la sua vera identità.
Il giorno dopo il battezzatore darà una testimonianza ancora più chiara quando vedendo Gesù lo riconoscerà come “l’Agnello di Dio” e due dei suoi discepoli, uno dei quali era Andrea il fratello di Pietro e l’altro, proprio perché rimasto anonimo, si ipotizza fosse lo stesso evangelista, si metteranno a seguirlo e andranno a casa sua per rimanere insieme a lui, un incontro che li segnerà per sempre e di cui ricorderanno addirittura l’ora in cui avvenne “erano circa le quattro del pomeriggio”.
Giovanni il battezzatore non è dunque un fanatico esibitore delle proprie certezze di fede, né un maestro geloso dei propri discepoli, ma un vero profeta, uno che non ha niente di suo da annunciare o da difendere, ma è “voce” di un altro e riflesso della sua luce, immerge nell’acqua sapendo che vi scorre una vita non sua, è pronto a seguire colui che egli precede e a lasciare la scena, umile servitore anche più di uno schiavo, egli sa bene che non è lui che va cercato e incontrato e orienta il desiderio dei suoi verso l’altro, davanti al quale finalmente Andrea potrà dire: “abbiamo trovato”.
Ci mettiamo in ascolto di Giovanni, dunque, non soltanto con la curiosità di sapere se sia lui o noi l’inviato di Dio che stavamo aspettando, né solo per sentirci dare la buona notizia che il tempo dell’attesa è finito perché colui che ha in sé lo Spirito di Dio è già in mezzo a noi, ma per assimilare questo suo stile di fede: essere voce e non parola, essere raggio e non fonte della luce, essere acqua ma non sorgente, essere traccia e non il piede, essere a servizio e mai padroni, essere sempre una porta spalancata che rende possibile la gioia dell’incontro. Il ruolo di Giovanni non si esaurisce nel fornire le indicazioni giuste per incontrare Gesù, ma quando dopo l’incontro, ciascuno potrà dire: “abbiamo trovato”… la persona giusta da mettere al centro del nostro cuore e il modo di vivere che riempie le nostre giornate di senso e di gioia.
La prima lettura di oggi ci propone dal capitolo 61 di Isaia il testo letto e applicato a se stesso da Gesù nella sinagoga di Nazareth: “Lo Spirito del Signore è su di me… mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri…” (Lc 4,18). Quando Giovanni imprigionato da Erode invierà i suoi discepoli a chiedere a Gesù se sia lui quello doveva venire o se bisognasse aspettare un altro Egli risponderà ancora una volta con le stesse parole: “i ciechi recuperano la vista… il Vangelo è annunziato ai poveri…” (Mt 11,5). Giovanni è colui che ha visto lo Spirito del Signore posarsi su Gesù (Mt 3,16) e la sua vita spesa per i ciechi, gli zoppi, i poveri… Questo è il DNA di colui che viene da Dio, buona notizia per chi attende, strada da intraprendere per chi si lascia comunicare lo stesso Spirito.
In questo nostro tempo, allora, in cui molti alzano la voce per comunicare quelle che restano soltanto delle loro opinioni e si propongono allo sguardo solo per farsi ammirare, in cui i catturatori di audience brillano per un attimo per poi sprofondare nel vuoto non appena si sono spene le luci, in cui ciascuno è tentato di sentirsi qualcuno solo perché un certo numero di persone hanno accompagnato la sua esibizione con un “mi piace” e qualche “cinguettio”… è più che mai urgente lasciarsi raggiungere dalla voce di Giovanni , uno che non cerca il centro della scena o appaganti gratifiche, ma sa indicare con precisione chi è colui che può dare alla vita un’altra direzione, risvegliare i grandi desideri, riaccendere nel cuore la passione e infondere l’energia per realizzare da subito le “grandi cose” di Dio.
Se nelle nostre chiese fossimo un po’ più come Giovanni, la smetteremmo di contare quanti siamo e di calcolare l’età media, di esibire titoli e rivendicare posizioni di privilegio, di vantarci dei nostri ruoli e di distribuire caramelle ai più buoni… e torneremmo a raccontare a tutti a voce piena: abbiamo trovato quello che cercavamo, quel Gesù che ancora una volta è davvero tornato tra noi.
Buona e gioiosa settimana a tutti, fra’ Mario.

Preparazione alla prima comunione
PREPARAZIONE ALLA PRIMA COMUNIONE
Carissimi mamme e papà,
un cordiale saluto a ciascuno di voi, in questo momento reso così difficile dalla pandemia, ma che ci fa capire ancor di più l’importanza del prenderci cura gli uni degli altri.
Ed è proprio questo l’aspetto più importante sul quale sto insistendo fin dal nostro primo incontro: la preparazione alla Prima Comunione non può essere più pensata come se fosse una specie di scuola, che dopo un certo numero di incontri, tenuti in alcuni periodi dell’anno, rilascia l’attestato di partecipazione con tanto di festicciola finale… né, tantomeno come un periodo di indottrinamento, in cui imparare a memoria alcune cose da credere per dirsi cristiani e quattro preghierine da ripetere per tutta la vita se ne senti il bisogno…
Quello che mi sta a cuore accompagnando bambini, giovani e adulti è “formare” dei cristiani, cioè persone che costruiscono la loro mentalità, le loro convinzioni e le loro motivazioni, sull’assimilazione del Vangelo e sviluppano il loro stile di vita sul modello lasciato da Gesù, intessendo con gli altri relazioni fraterne che culminano nella nascita di comunità (famiglia, parrocchia, quartiere) in cui ci si prende cura gli uni degli altri, dai vicini ai marginali.
Per questo mi sono riproposto di rimettere al centro la Messa della Domenica, come momento qualificato di ascolto della Parola di Dio e di comunione con il Signore Gesù e tra di noi, accompagnata da attività formative e di animazione atte a favorire la conoscenza reciproca tra famiglie e l’inserimento in quella “famiglia di famiglie”, che vuole essere la nostra Parrocchia.
Avviare questo processo di trasformazione non è stato facile: molti si sono adeguati per motivi di comodo (la collocazione del cosiddetto catechismo alla domenica), molti genitori non si sono proprio lasciati coinvolgere, altri hanno continuato a ‘parcheggiare’ i propri figli in parrocchia per un paio d’ore, altri ancora hanno continuato a pensare che per la festicciola della prima comunione valga la pena di sopportare qualche piccola scocciatura per un pò di tempo… l’emergenza covid ha evidenziato ancor di più la realtà di un gruppo di famiglie poco motivato a partecipare, ma molto determinato nell’esigere comunque la conclusione dell’itinerario formativo, senza tener conto che da mesi ne era mancato l’elemento portante (già da dicembre 2019 il numero dei bambini partecipanti era calato di un buon 50%) e cioè la Messa domenicale, che anche dalla fine del lookdown ad oggi è stata comunque disertata dalla maggior parte.
Vi confesso che sono stati davvero avvilenti l’arroganza di alcuni e la risonanza che mi è arrivata di commenti e giudizi sprezzanti di fronte alla decisione di riprendere l’itinerario formativo solo quando si sarebbero ripristinate condizioni favorevoli… D’altronde, non è andata meglio nelle Parrocchie in cui si è andati avanti lo stesso e si sono tenute le Prime Comunioni in ottobre: il Parroco di S. Ireneo mi ha comunicato l’amarezza sua e dei catechisti per il fatto di famiglie che si sono cancellate dal gruppo watsapp addirittura durante il pranzo di rito per la prima comunione…
Tutto ciò non mi ha fatto perdere la voglia e l’entusiasmo di andare avanti nell’impegno “formativo” e soprattutto il desiderio di essere vicino a ogni famiglia in questo momento così problematico… per questo vi ho proposto di ritrovarci insieme, anche se a distanza regolamentare, almeno ogni tanto a celebrare la Messa festiva il sabato pomeriggio (anche qui quante chiacchiere…) per continuare ad avere come punti di riferimento la Parola di Dio e la comunione tra noi. Per molti però il pensiero fisso rimane un altro: ma la prima comunione quando si farà? Questa insistenza mi ha fatto venire un’idea: se i bambini hanno questo forte desiderio di fare la comunione quale momento migliore del Natale per fargli questo regalo e rendere così presente Gesù non soltanto nel presepio ma, soprattutto, nel loro cuore? Essi potrebbero fare così la comunione nei giorni delle festività natalizie, cos’ carichi di significato e di emozioni.
Quindi il 28 novembre vi ho proposto di far fare la prima comunione ai bambini che lo desiderano (sia quelli che hanno iniziato nel 2018 che nel 2019) nella messa della IV domenica di avvento che celebreremo sabato 19 dicembre alle ore 16,30 (arrivare un quarto d’ora prima per il rispetto dei protocolli sanitari). Non c’è niente di particolare da preparare: si viene e si partecipa come al solito e al momento della comunione i bambini si mettono in fila insieme ai genitori presenti e si comunicano, nella massima semplicità e sobrietà, come questo momento richiede. Non c’è da ricevere altre informazioni se non la raccomandazione di non invitare nessuno, perché siamo già vicini al numero massimo consentito di persone che possono stare in chiesa.
La festa solenne per tutti i bambini che ricevono la prima comunione in tempo di covid la faremo, a Dio piacendo, domenica 6 giugno 2021, festa del Corpo e Sangue del Signore, alle ore 11, nel piazzale antistante la chiesa, sperando che questa esperienza vissuta ce la faccia celebrare con profondità e significatività, e eviti a molti di ridurla ad una festa in costume, con gadegts e cotillons, come spesso succede.
Se qualche famiglia volesse celebrare anche il Sacramento della Riconciliazione (per i bambini lo rimanderei ad un’età più adulta in cui possono avere una più chiara consapevolezza di quello che significa fare del male o commettere errori importanti) ricordo che siamo a disposizione tutti i giorni nella mezzora che precede l’inizio di ogni Messa.
Il prossimo incontro di questo itinerario di formazione “permanente”, cioè che non è una scuoletta a tempo e non è rivolto solo ai bambini, ma a tutta la famiglia, per tutti coloro che vorranno proseguire, ci sarà sabato 16 gennaio alle ore 16,30 per la celebrazione della Messa festiva.
Vi ho scritto queste righe in prima persona perché mi assumo tutta la responsabilità di quello che vi propongo, come si suol dire: “ci metto la faccia”… ma sono certo di parlarvi anche a nome dei catechisti, che ringrazio per come si impegnano ad essere vostri compagni di viaggio, anche se al momento costretti a farlo soprattutto attraverso le varie piattaforme social.
Un saluto fraterno a tutti voi, fra’ Mario.
10/12/2020.
Inizio del Vangelo, inizio del cammino

Carissimi fratelli e sorelle,
gli esperti di comunicazione affermano che il contenuto di un messaggio sui social va espresso nei primi sette secondi. Allora oggi ci troviamo davanti ad un esempio stupendo di comunicazione: in quattro secondi e con sette parole, nel testo originale in greco, Marco ci comunica il contenuto del suo vangelo: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”. Non si tratta di un titolo, ne di un riassunto, ma esattamente di ciò che scopriremo seguendo il racconto dall’inizio alla fine: dalla predicazione di Giovanni il Battista, presentato come il messaggero che prepara la via a Gesù, alla confessione di fede del centurione romano che sotto la croce lo riconoscerà come Figlio di Dio.
Accogliamo questo testo mentre ci prepariamo a celebrare il ricordo della nascita di Gesù, momento privilegiato per riflettere su quei cambiamenti di mentalità e di stili di vita che può generare la presenza di Dio tra di noi, pertanto vorrei dare a quella parola “inizio” non solo il valore di “momento iniziale del racconto”, ma evocazione di quello che può accadere ogni volta che entri in contatto con il Vangelo: può davvero iniziare un’altra vita.
E’ esattamente questo il senso della predicazione di Giovanni il Battista, questo uomo austero che viveva nelle periferie nord est del deserto di Giuda, nella stessa zona in cui si erano ritirati gli esseni, che invitava le persone a ripetere il passaggio nel fiume Giordano, come avevano fatto le antiche tribù per entrare nella Terra Promessa precedute da un angelo del Signore (Es 23,20), per esprimere la loro conversione da una vita nei peccati a quella illuminata dalla legge.
In lui le prime comunità cristiane identificarono il portatore di quella “voce” che risuonò già tra gli ebrei all’epoca dell’esilio a Babilonia, prevedendo a breve il loro ritorno a Gerusalemme, per cui essi erano invitati ad aprire una strada nel deserto al Signore che li avrebbe guidati alla libertà, come già aveva fatto con le generazioni dei tempi dell’Esodo.
Ora quella “voce” risuona in Giovanni, il nuovo Elia (Mal 3,23), che invita ad aprire una strada ad un suo discepolo, colui che viene dopo di lui, che e più forte di lui, che presto passerà avanti (Gv 1,15), di fronte al quale anche essere uno schiavo è troppo onore… colui che è così grande perché non li limiterà ad evocare il valore purificatorio dell’acqua ma sarà in grado di trasmettere alle persone l’energia che trasfigura le esistenze, quella che lui possiede e comunica: il soffio, lo Spirito di Dio.
Questo è davvero l‘inizio della buona notizia (Ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου) che la “voce”, che sia dei profeti, di Giovanni, degli Apostoli, di tutti i predicatori… o che sia presente più nei segni dei tempi che nelle parole, offre a tutti coloro che hanno il desiderio di intraprendere strade diverse da quelle già percorse, di vedere oltre il già visto, di vivere la propria vita con più senso e con più gioia, o anche solamente di riemergere da situazioni di mediocrità e di fallimento: hai finalmente l’opportunità di incontrare colui che può farti uscire dal deserto e portarti dall’altra parte del fiume: nella terra nuova e il cielo nuovo della fraternità, della giustizia e della pace, nei quali prende vita quel mondo di Dio che Gesù ha annunciato e per il quale ha dato tutto se stesso.
A distanza di anni dalla Pasqua di Gesù e dalla morte degli Apostoli, nella comunità cristiana questo desiderio di cieli nuovi e terra nuova è rimasto intatto. Ce lo testimonia la lettera che all’inizio del secondo secolo circolava tra i cristiani, circondata della massima attenzione come se fosse stata scritta da Pietro stesso, e detta appunto seconda lettera di Pietro, di cui noi leggiamo proprio il brano in cui si afferma che bisogna saper attendere, perché il giorno in cui il Signore realizzerà le sue promesse verrà, magari improvviso come un ladro, magari fra mille anni, che per Lui sono come un giorno solo, ma verrà e Dio vuole che non se lo perda nessuno, per cui concede a ciascuno tutto il tempo per un cammino di liberazione e di guarigione da ogni forma di male.
Per camminare verso questo obiettivo non esiste una strada già costruita e sicura da percorrere, ma bisogna aprirne una nuova, nel deserto senza vita come nelle steppe popolate di erbe e arbusti, colmando i vuoti angusti delle valli e spianando le alture, rendendo comoda pianura terreni accidentati e scoscesi… questo chiedeva un profeta del VI secolo, la cui predicazione è stata inclusa nel libro di Isaia, al popolo devastato dall’esilio a Babilonia e speranzoso nell’intervento di Ciro che gli avrebbe restituito la libertà… e questo l’invito di Giovanni il Battista a quei Giudei insoddisfatti della propria esperienza religiosa e desiderosi di autenticità… e questo è l’invito che risuona per noi, anche in questo difficile tempo di pandemia, in cui sembra mancare la voglia di affrontare la fatica delle ripartenze e di fare strade nuove, in cui molti preferiscono chiedersi “quando si tornerà come prima?” piuttosto che “cosa sta cambiando?”, tempo in cui noi cristiani dobbiamo ancor di più lasciarci scuotere dalla “voce” inconfondibile che parla nel Vangelo e nella vita di fratelli e sorelle in attesa di consolazione, incoraggiamento, illuminazione e forti motivazioni.
In questa seconda settimana di avvento, dunque, dopo aver accolto domenica scorsa l’invito a essere svegli e pronti per l’incontro sorprendente con il Signore, siamo chiamati a ridestare in noi la passione del camminare, la capacità di passi decisivi, a ognuno dei quali corrisponda un cambiamento, il fiuto per aprire laddove non ci siano sentieri già battuti ciascuno la propria strada. Il Dio che è già venuto, che viene, e che sempre tornerà a venire fino all’ultimo giorno possiamo incontrarlo solo se anche noi ci incamminiamo verso di lui, con solerzia e intraprendenza, senza perderci in tante chiacchiere ma con i passi concreti dell’abbandono della vecchie strade, già percorse tante volte inutilmente, dell’orgoglio e dell’egoismo, dell’autosufficienza e della presunzione, delle chiusure e dei fuori misura, per seguire le orme, le tracce inconfondibili che conducono sempre oltre, che la “voce” del Vangelo apre davanti a noi ogni giorno, come fosse il primo.
Inizio del Vangelo, inizio del cammino.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
Il desiderio non si addormenta mai
IL DESIDERIO NON SI ADDORMENTA MAI
Carissimi fratelli e sorelle,
iniziamo la preparazione al Natale con la lettura di un brano tratto dal “discorso escatologico”, che nelle domeniche precedenti abbiamo letto nella versione di Matteo, e oggi, invece, nella versione di Marco, i quattro versetti finali del capitolo 13, in cui risuona per tre volte la parola: vegliate! Del Vangelo di Matteo avevamo ascoltato le parabole delle vergini sagge e stolte e dei talenti e l’allegoria del giudizio finale, in questo breve tratto di Marco sentiamo alludere ad una stessa situazione: il ritorno improvviso del padrone e la necessità di farsi trovare svegli e pronti.
Ancora una volta è necessario tenere presenti le situazioni storiche che fanno da sfondo alla predicazione di Gesù e alla sua trascrizione circa 40 anni dopo: siamo infatti negli ultimi giorni della vita del maestro e si è consumato lo strappo definitivo con le autorità giudaiche che determinerà la sua condanna a morte; giorni vissuti, dunque, nella consapevolezza della possibilità di morire da un momento all’altro, nell’ansia e nella concitazione da una parte, ma dall’altra con una convinta adesione al progetto del Padre che lo porterà a consegnarsi volontariamente ai suoi persecutori. Quando le parole di Gesù, divenute oggetto della predicazione degli Apostoli, dopo una quarantina di anni vengono messe in iscritto, siamo nel pieno della prima guerra tra giudei e romani, che si concluderà nell’anno 70 con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio. La predicazione delle comunità e il Vangelo scritto riflettono l’atmosfera drammatica di quel momento e l’attesa della fine del mondo che sarebbe avvenuta con la distruzione del Tempio, secondo alcune credenze giudaiche.
Questo ci fa comprendere perché il discorso sulle ultime cose che avverranno ha dei toni particolarmente cupi e il travisamento che c’è stato nel corso degli anni, fino ai nostri giorni, a motivo di una predicazione troppo moralistica che lo ha trasformato in un avviso minaccioso per i peccatori. Ma Gesù parlava della sua morte imminente e non della nostra, della fine di quel mondo dominato da poteri avversi al progetto di Dio e non della distruzione del pianeta, di saper accogliere responsabilmente anche in mezzo a tante difficoltà ogni opportunità per costruire il regno di Dio e non di lasciarsi ammaliare dalle previsioni dei profeti di sventura. Così anche la prima comunità, afflitta dalle persecuzioni predette dal Maestro (“se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi” Gv 15,20), e spettatrice della distruzione del mondo giudaico, sentiva che quello era non il momento di mollare, ma il tempo propizio per dare tutto pur di portare avanti la missione che Gesù aveva loro affidato, come fa il padrone che partendo per un viaggio affida a ciascun servo il proprio compito per amministrare il patrimonio e far progredire le attività.
La raccomandazione di vegliare che i testi del Nuovo Testamento ci consegnano, allora, risuona per noi come un invito a cogliere all’interno della nostra situazione storica quanto è di impedimento a continuare la missione di Gesù, ad individuare gli ambiti in cui dovremmo impegnarci con determinazione e che forse ci trovano invece assopiti e distratti, a riscoprire quei valori essenziali sui quali costruire la nostra vita perché sia lievito di quel mondo ‘altro da questo’ che sogniamo in nome di Dio e che magari sono passati in second’ordine, se non sono diventati del tutto assenti. Vegliare, perché quell’incontro con Dio che riaccende dentro di noi la passione e l’impegno proprio perché imprevedibile può avvenire in ogni momento, come un’opportunità che si presenta improvvisa e fugge via veloce, e per questo da cogliere al volo (il Vangelo di Marco per descrivere questo momento usa il termine greco ‘Kairòs’, il nome del dio mitologico dai piedi alati che passava sempre di corsa). Vegliare perché Dio è colui che ci viene incontro, che arriva quando non te l’aspetti, che è già venuto in mezzo a noi in tanti modi, che è venuto di persona in Gesù, e che continuerà a venire ed ad arrivare, pronto a fermarsi ed essere il Dio con noi, a condizione che siamo pronti ad accoglierlo, altrimenti non ci rimarrà che costatare amareggiati che è già passato altrove.
Vegliare, dunque, continuo a ripeterlo, è diverso da aver paura, dal provare smarrimento di fronte all’imprevisto o dall’essere pronto a fuggire altrove quando il mondo sembra crollarti addosso… è piuttosto saper riconoscere negli avvenimenti le mani di Dio che ti plasmano e che danno saldezza al cammino di ogni giorno (come ci suggeriscono le prime due letture di oggi), è quell’insonnia salutare che ci prende certe notti quando sappiamo che il giorno dopo ci sono cose particolarmente importanti che ci attendono, è lo sguardo vigile di chi non solo bada a custodire le proprie risorse, come un portiere di notte, ma è sempre alla ricerca di nuovi spazi in cui impiegarle e sa riconoscere quelli in cui ce né più necessità.
Credo che questo tempo di pandemia che ci impone brusche frenate e cambiamenti di ritmo, dopo gli anni della presunzione e della frenesia dell’avere tutto e subito, dell’attesa del fine settimana per estraniarsi dal vissuto di ogni giorno, anche solo magari con una notte di sballo o con una gita ‘fuori porta’, sia in qualche modo un tempo propizio per riassaporare il gusto della veglia e dell’attesa, non solo del giorno in cui ci diranno che tutto è finalmente finito, ma del ritorno di dimensioni dimenticate, del risveglio di passioni assopite, della ripresa del desiderio di costruire un mondo più umano e fraterno, dove anche Dio possa tornare ad essere di casa.
Buona settimana, fra’ Mario.

Amare, o morire di indifferenza
Carissimi fratelli e sorelle,
siamo arrivati all’ultima domenica dell’Anno Liturgico, in cui celebriamo Gesù con il titolo di “Re dell’universo”, e concludiamo oggi la lettura del capitolo 25 di Matteo con il brano che ci offre la descrizione allegorica della vittoria definitiva del bene sul male che avverrà “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria”.
Come sappiamo, il o i redattori del Vangelo attribuito a Matteo, hanno raccolto gli insegnamenti di Gesù in cinque grandi discorsi: il primo, quello per così dire programmatico, detto “della montagna”, si apre con la pagina magistrale delle Beatitudini, sullo stile di vita di quanti lasciano regnare Dio sulla loro vita, e l’ultimo si chiude con un insegnamento altrettanto fondamentale sulla vita eterna, che non è quella che ci aspetta dopo la morte, ma è quella che l’Eterno ci comunica giorno per giorno, prendendosi cura di noi e chiedendo a noi di fare come Lui: prenderci cura dei più piccoli della terra.
Un discorso finale, potremmo dire, veramente “con il botto”, di gran effetto e capace di comunicarci l’essenza dell’insegnamento di Gesù, un po’ come fa anche Giovanni nei discorsi della cena d’addio, in cui il maestro consegna ai discepoli le sue ultime volontà: “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Il Vangelo dell’”Emmanuele”, del “Dio con noi” (Mt 1,23) “tutti i giorni fino alla fine dei tempi” (Mt 28,20) consiste nel saper riconoscere la presenza di Dio negli uomini, a partire dai più piccoli. In un mondo in cui, soprattutto oggi, si può vivere “come se Dio non ci fosse”, il credere sceglie di vivere “come se Dio ci fosse”, sa cogliere la sua “presenza” nei fratelli e nelle sorelle che ama. Il Dio di Gesù alla fine dirà: non mi hai mai visto, ma tutto quello che hai fatto a uno dei più piccoli lo hai fatto a me, perché io sono presente in loro che desiderano essere amati, perché tu mi rendi presente per loro con la tua capacità di amare.
Questa essenzializzazione definitiva della fede, oltre la quale non ce n’è una migliore, Gesù ce la presenta con la metafora tipica della predicazione apocalittica, e presente in molte tradizioni religiose, del “Giudizio finale”. Evocando la visione notturna, il sogno, del profeta Daniele sull’atteso trionfo di uno simile a un “Figlio di uomo” sul malvagio dominio babilonese (cosa che al tempo di Matteo la comunità si aspettava fosse compiuta da Gesù nei confronti dei romani), e la predicazione di Ezechiele contro i pastori d’Israele che violentavano le pecore più deboli (le incornano come le capre) e si arricchiscono alle loro spalle (diventando pecore grasse) (Ez 34) per cui Dio interverrà in favore delle pecore più deboli, separandole dalle grasse e dalle capre, Gesù esprime da un lato un giudizio definitivo sui capi politico-religiosi del suo tempo, bramosi di potere e ricchezza, ma indifferenti alle necessità dei più deboli, dall’altro offre ai discepoli l’indicazione sull’unica cosa che essi devono cercare se davvero amano Dio: mettere la vita a servizio degli ultimi.
Permettetemi, pertanto, fratelli e sorelle, di invitarvi ancora una volta ad abbandonare quella visione giustizialista del giudizio di Dio, tipica dell’indottrinamento della nostra infanzia, secondo la quale alla fine della vita e della storia ci verrà chiesto conto delle nostre azioni, e verremo premiati o puniti a seconda del bene o del male commessi… L’immagine del giudizio finale, in realtà, non è che uno dei tanti modi per esprimere la radicalità di una scelta di fede, il lasciare a Dio una totale signoria sulla nostra vita, e in suo nome combattere ed estromettere da essa ogni forma di male per lasciarci orientare esclusivamente da quella forma sublime di bene che è l’amore. Non per niente l’elenco delle azioni su cui verterà la verifica offerto da Gesù (che amplifica di poco quello di Ezechiele rivolto ai pastori: prendersi cura delle pecore deboli, inferme, ferite, smarrite…) non contiene nessuno degli insegnamenti dottrinali, dei comandamenti classici, dei precetti morali o delle prescrizioni per il culto, quasi a ribadire che non si tratta di un rendiconto sull’osservanza di tutto questo, ma di una pienezza di vita e di gioia che si raggiunge soltanto attraverso l’amore. “Il Dio di Gesù – scrive A. Maggi - non chiederà mai se si è creduto in lui, ma se si è amato come lui”.
E proprio coloro che sono vissuti nell’amore e nel servizio delle persone più deboli, con mitezza e misericordia, Gesù li proclama “beati” all’inizio della sua predicazione e ora “benedetti dal Padre mio”, perché hanno portato a termine il progetto vi vita propostogli. “Benedizione” è una delle parole più belle della Bibbia: essa sta ad indicare che Dio è il bene, è solo bene, un mondo di bene che Egli fa scendere sugli uomini mediante la sua parola rivitalizzante e amandoli uno per uno. Gesù, per chi crede in Lui, è questa parola viva del Padre, l’amore incarnato e portato alla sua pienezza con il dono della vita. Il credente è un benedetto in quanto investito dall’energia di questa parola e conquistato dalla bellezza di questo amore, una luce incontenibile che egli fa splendere sul candelabro della quotidianità: “così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone” (Mt 5,16) e riconoscano che Dio ne è la sorgente. Quando il bene annunciato diviene motivo del proprio agire e comincia a trasfigurare le vite a partire dalle fragilità, lì c’è davvero benedizione e inizia il mondo di Dio.
Dove, invece, regna l’indifferenza, la malignità e l’incapacità di spendersi per gli altri inizia l’inferno, quel modo di vivere in cui le persone “bruciano” letteralmente la loro esistenza, la rendono sterile e inutile, un ammasso di rifiuti destinati all’incenerimento, come avveniva nella valle di Hinnom a Sud di Gerusalemme, l’inceneritore delle immondizie e delle carcasse animali, dove il fuoco è perennemente acceso, e che già Gesù aveva evocato come destinazione di chi si adira con il proprio fratello o lo disprezza offendendolo o ignorandolo (Mt 5,22), passo che Papa Francesco commentava così in una catechesi: “Per annientare un uomo basta ignorarlo. L'indifferenza uccide. Ogni volta che esprimiamo disinteresse per la vita altrui, ogni volta che non amiamo, in fondo disprezziamo la vita”.
E’ l’indifferenza la grande maledizione della vita, la grande nemica di Dio e del prossimo, al punto da far dire a Gesù nei confronti degli indifferenti un’espressione che mai avevamo sentito sulle sue labbra: “lontano da me, maledetti”. Credo che, conoscendolo bene, possiamo affermare che Gesù non ce l’avesse affatto con le persone, ma sicuramente si tratta di una maledizione contro l’indifferenza, il grande male capace di determinare il fallimento definitivo dell’uomo.
E’ bene allora far tornare alla nostra mente le denunce di Papa Francesco contro quel grande male di oggi che è la “Globalizzazione dell’indifferenza”. Ancora prima che scoppiasse questa disastrosa pandemia Egli si esprimeva così: “Non mi stanco di ripetere che l’indifferenza è un virus che contagia pericolosamente i nostri tempi, tempi nei quali siamo sempre più connessi con gli altri, ma sempre meno attenti agli altri”. E anche adesso che conosciamo e sperimentiamo la pericolosità del Covid 19, non dimentichiamocelo che c’è un virus ben peggiore che può annientare e rendere insensata la nostra esistenza. Non c’è umanità ne autentica esperienza di fede laddove non ci si prende cura del prossimo fragile e bisognoso, come ci ricordava ancora Papa Francesco nella giornata del povero lo scorso 15 novembre: “C’è tanta fame, anche nel cuore delle nostre città, e tante volte noi entriamo in quella logica dell’indifferenza: il povero è lì, e guardiamo da un’altra parte. Tendi la tua mano al povero: è Cristo”.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.