CON LO SGUARDO FISSO SOLO SU DI LUI
Carissimi fratelli e sorelle,
il brano di Vangelo di questa quarta domenica di Quaresima è tratto dal capitolo terzo di Giovanni in cui tramite la forma letteraria di un dialogo tra Gesù e un membro del sinedrio, Nicodemo, uno dei “capi dei Giudei” come li chiama l’evangelista, ci viene presentato il superamento della dottrina giudaica della “vita eterna” come premio che Dio, in qualità di giudice supremo, conferisce a coloro che se lo meritano. Con quali argomenti Gesù smonta questa tesi che, a ben vedere, è ancora tanto presente nella mentalità di molti cristiani?
Il Maestro nazareno inizia ricordando un episodio emblematico dell’Esodo narrato nel libro dei Numeri (21,4-9): il popolo protesta contro Dio e contro Mosè che li hanno condotti a morire nel deserto con un itinerario mal progettato e senza senso. Allora per punizione essi si imbattono in un territorio abitato da serpenti velenosi e molti muoiono. Per il pentimento del popolo e la preghiera di Mosè Dio chiede che sia innalzato su un palo un serpente di rame perché chiunque lo guardi sia guarito, non dall’oggetto in se, che sarebbe magia, ma dalla preghiera a Lui, Salvatore di tutti (come preciserà il libro della Sapienza 16,5-7). Come Dio ha salvato il popolo in quella situazione particolare attraverso l’innalzamento del serpente di rame, ora Egli offre un segno del suo grande amore per il mondo, ossia anche per quell’umanità che non vive in sintonia con Lui, innalzando il Figlio dell’uomo, cioè facendolo passare dalla morte alla vita attraverso la crocifissione/glorificazione, perché tutti mediante il dono del suo Figlio Unigenito abbiano la vita.
Dio, prosegue Giovanni, non manda il Figlio a giudicare e condannare, quindi premiare o castigare a seconda della qualità delle azioni dell’uomo, ma a salvare, a dare la possibilità di vivere un’esistenza nuova, piena di senso, di amore e di gioia, che ha inizio proprio quando si accoglie il Figlio nella propria vita (si guarda a Lui), ci si lascia folgorare dalla grandezza del suo amore e lo si assimila: questa è l’esperienza che genera una nuova vita. Chi non accoglie questo grande dono si condanna da solo a vivere un’esistenza insignificante, che produce solo fallimento.
Siamo, dunque, invitati a superare la mentalità a cui accennavo sopra che ci ha condotti a farci un immagine di Dio come di un giudice giustizialista e a pensare che la vita eterna sarà un premio finale riservato ai più buoni. Gesù ci offre tutta un’altra prospettiva che investe il nostro presente, il nostro quotidiano, che si fonda non sulla sostenibilità delle dottrine riguardanti il dopo morte o sulle dottrine morali che prevedono ricompense per le opere buone, ma sul fatto che Lui ci ha amati donando tutto se stesso per noi, come leggiamo anche nella seconda lettura di oggi in cui Paolo afferma perentoriamente: “Per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; ne viene dalle opere perché nessuno possa vantarsene”.
E’ necessario passare quanto prima, se ancora vi siamo invischiati, da una religiosità dell’autoproduzione della salvezza, dell’essere bravi per avere dei crediti nei confronti di Dio, o, viceversa, dell’essere pieni di sensi di colpa per le proprie debolezze e cadute e di conseguenza sempre nella necessità di pratiche espiatorie o di intercessioni di questo o quel protettore, ad una fede che può dirsi autentica se fondata sull’adesione piena alla persona e al messaggio di Gesù, Colui che ha accettato di farsi debole fino alla morte di croce pur di amarci fino alla fine, mosso dalla certezza che Dio è un papà che non abbandona mai nessuno al proprio destino, che ci accompagna e sostiene in ogni vicenda della vita, che è sempre pronto a dare una “qualità” inaspettata al nostro vissuto: il sapore dell’Eterno, inteso non come attesa di un qualcosa dalla durata illimitata, ma come esperienza profonda di quell’amore gratuito che rende umili, grati, generosi e felici da oggi, ogni giorno di più.
Questa luce che brilla sul mondo, l’energia trasfigurante dell’amore gratuito, può essere accolta o rifiutata. Questo è il giudizio: sta alla libera decisione di ogni persona accogliere il dono di Dio o tirarsene fuori. E’ una realtà che Giovanni ci ha presentato dall’inizio: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta (1,5), il Crocifisso innalzato da una parte rivela l’iniziativa amorevole e gratuita del Padre, ma dall’altra purtroppo anche il massimo rifiuto di essa. L’amore non si impone ne agisce automaticamente, si offre e chiede di essere accolto, chi lo fa passa così dalle tenebre alla luce e le sue opere divengono luminose. E’ questo ciò che ci viene proposto anche nel discorso della montagna: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt5,16). Glorifichino il Padre che è l’autore della nostra trasformazione, il potenziatore della nostra libertà, la sorgente di opere che non nascono dal nostro desiderio di affermazione e gratificazione, ma dal nostro rimetterci liberamente e responsabilmente nelle sue mani, come afferma Paolo nel brano succitato: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.
La Pasqua che si avvicina alimenti in noi allora il desiderio, e non l’ambizione, di essere liberati dalle nostre zone d’ombra, per agire in quel modo “meraviglioso” proprio di coloro che non hanno occhi se non per guardare a quell’amore gratuito innalzato per sempre sul trono della croce.
Buona settimana, fra’ Mario.
DIO NON E’ IN VENDITA
Carissimi fratelli e sorelle,
entriamo oggi nel ciclo delle tre domeniche che ci preparano alla Pasqua mediante le immagini del nuovo tempio, del serpente di bronzo e del chicco di grano.
Al centro della Liturgia della Parola c’è il racconto del furore profetico di Gesù all’interno del Tempio di Gerusalemme trasformato ormai in un mercato, tratto dal Vangelo di Giovanni. E’ interessante notare ancor prima di addentrarci nei dettagli del racconto che questo è uno dei pochi episodi che il Vangelo di Giovanni ha in comune con i Sinottici, soltanto che mentre questi ultimi lo collocano nell’ultima settimana di vita di Gesù, Giovanni lo colloca all’inizio della sua narrazione, all’interno del secondo capitolo, che apre quella che chiamiamo la sezione dei segni rivelatori dell’identità di Gesù, in cui egli ci offre il quadro programmatico della sua opera. Questo spostamento, in effetti, non è di natura cronologica, per cui non ha senso starsi a domandare quando avvenne realmente, ma di natura teologica: con il racconto delle nozze di Cana e della purificazione del Tempio (contenuto del capitolo secondo) Giovanni vuole cominciare ad introdurci nel senso più profondo della missione di Gesù: è lui il Messia, il Figlio di Dio che con il dono di sé da inizio al banchetto messianico della salvezza e al nuovo culto, che non si avvarrà più della mediazione del Tempio ma che attraverso il dono del suo Spirito, comunicato da Lui Crocifisso e Risorto, darà ai credenti la pienezza della comunione con Dio e la sua stessa vita.
Certo che tutti noi lettori, immaginando in Gesù la presenza di un carattere mite e pacifico, sulle prime rimaniamo meravigliati nel sentirci raccontare di questo attacco d’”ira funesta” che portò il Maestro nazareno a cacciare a frustate tutti fuori dal tempio, comprese pecore e buoi, e a rovesciare i banchi di lavoro di commercianti e cambiavalute, poi possiamo in qualche modo comprenderlo e giustificarlo: la frusta di cordicelle richiama il messia purificatore descritto in alcuni testi rabbinici, d’altra parte anche a noi oggi danno fastidio i luoghi di culto in cui l’aspetto mercato prende il sopravvento, sia che si vendano presunte immagini sacre, come benedizioni e indulgenze o souvenirs di vario genere. Lo stesso evangelista inoltre richiama una frase del salmo 69: lo zelo per la tua casa mi divorerà… quindi, da una parte una reazione furente costatando che il Tempio da dimora di Dio tra gli uomini era stato ridotto ad un mercato, dall’altra una “passione divorante” nei confronti di Dio, divorante al punto che gli costerà la vita.
I giudei (con questa espressione Giovanni intende i sacerdoti e i capi del popolo), infatti, gli contesteranno questo modo di comportarsi chiedendogli: “quale segno ci mostri per fare queste cose?”, cioè con quale legittimità, o chi ti dà l’autorità di fare questo? La risposta di Gesù ha del sorprendete “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. I giudei che non avevano posto la domanda per comprendere meglio l’identità di Gesù ma proprio per delegittimarlo, anzi sappiamo che nel processo religioso ci saranno testimoni che giureranno di aver sentito Gesù dichiarare di voler distruggere il Tempio (Mt 26,61), ironizzano sulle capacità di questo super architetto. In realtà, l’ironia fa parte dello stile narrativo di Giovanni, che in più parti sottolinea l’incapacità dei giudei di comprendere il linguaggio simbolico di Gesù, infatti aggiunge che essi non capivano che Egli parlava del tempio del suo corpo, non solo ma gli stessi discepoli arriveranno a comprenderlo solo dopo la sua risurrezione.
E proprio qui noi comprendiamo il senso preciso di questo episodio: Gesù non ha semplicemente voluto “purificare il tempio”, riportarlo alla sua funzione originale di luogo sacro dedicato alla preghiera, ma ha voluto affermare con forza che la sua funzione era terminata, così come la vita religiosa ad esso collegata, come rivelerà più avanti alla donna samaritana: “ viene l’ora in cui ne su questo monte (il Garizim, sul quale i samaritani avevano costruito un tempio distrutto nel 128 a.c., simile, ma alternativo a quello di Gerusalemme) ne a Gerusalemme (nello splendido tempio in cui erano ancora in corso i lavori di restauro iniziati da Erode il grande) adorerete il Padre… ma viene l’ora ed è questa in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano” (Gv 4,22-23). “Spirito e verità”, cioè la piena rivelazione di Dio nella morte e risurrezione di Gesù, dalla quale viene in noi lo Spirito, la vita stessa di Dio. Non c’è dunque più bisogno di tempio per chi incontra il Risorto e attinge a Lui il dono della vita nuova che fa del cercatore di Dio un risorto, libero dall’asservimento ai riti espiatori a pagamento offerti nel tempio. Viene da chiedersi: perché una vita di fede così intesa, come libera apertura all’azione trasfigurante dello Spirito di Dio, nel corso dei secoli ha finito per lasciare il posto di nuovo ad una religiosità del tempio? Non vi sembra quanto mai attuale la provocazione di Gesù?
Giovanni conclude il racconto con una nota: “molti vedendo i segni che Egli compiva credettero nel suo nome. Ma Lui, Gesù, non si fidava di loro…”. Come dire che Gesù non era alla ricerca di facili consensi, né nutriva molta stima di quanti hanno continuamente bisogno di assistere a qualcosa di prodigioso per professarsi convinti o di quanti esprimono ammirazione o vivono di emozioni transitorie senza tuttavia cambiare radicalmente il proprio stile di vita. Un’osservazione estremamente valida oggi per la nostra comunità che anziché generare dei risorti, continua a portare avanti, nonostante il cambiamento epocale che stiamo vivendo, una religiosità ancora fondata sull’indottrinamento, sulla partecipazione più o meno assidua a sontuose ma sterili parate liturgiche, sull’accumulo di benefit, da procurarsi il più delle volte mediante offerte o prestazioni meritorie, per assicurarsi l’ingresso in paradiso. Ma la vita divina non è in vendita… E’ un dono e un dono da vivere a cominciare da oggi.
Buona settimana a tutti.
Fra’ Mario.
Aderire al vangelo con dedizione e fedeltà
Carissimi fratelli e sorelle,
mercoledì abbiamo iniziato il cammino verso la Pasqua con il rito altamente espressivo dell’imposizione della cenere sul nostro capo.
Mi verrebbe subito da osservare che quest’anno iniziamo i quaranta giorni della quaresima all’interno di una quaresima che a causa della pandemia in corso stiamo vivendo ormai da lungo tempo… giorni di grande sofferenza che ci fanno avvertire come non mai il senso della nostra precarietà, tutta la crudezza di quelle parole pronunciate da Dio all’uomo a seguito del peccato delle origini: polvere tu sei e in polvere ritornerai (Gen 3,19), che accompagnavano fino a qualche anno fa il gesto dell’imposizione della cenere. E come non pensare, mentre il Vangelo del giorno delle ceneri ci ripropone il senso autentico di alcuni dei cosiddetti “pilastri” delle religioni come il digiuno, la preghiera e l’elemosina, a quanti a motivo della malattia non avvertono più i sapori, o a coloro che muoiono in estrema solitudine a cui è possibile stare vicino solo con la preghiera, o a quanti per la perdita del posto di lavoro non resta che elemosinare un qualche aiuto?
In questo contesto, allora, possiamo forse meglio comprendere in che senso la Quaresima è un “momento favorevole” (2Cor 6,2), un tempo cioè in cui più che ripetere le parole e i gesti di sempre sono davvero necessari ancora una volta silenzio e discernimento, per rimettere a fuoco i valori per i quali abbiamo deciso di spendere la nostra vita e tradurli con crescente convinzione e passione in motivazioni per il nostro agire quotidiano, o comunque averli sempre presenti come punti di riferimento che permettono di non venire meno in un tempo di prova.
Se faremo questo in qualche modo stiamo già rispondendo alla domanda che ci poniamo tutti: come ne usciremo da questa prova?
Il brano di Vangelo di Marco che leggiamo in questa prima domenica di quaresima dell’anno ‘b’ ci offre un’”istantanea” (appena una ventina di parole) di come Gesù ha vissuto il tempo della prova prima di iniziare la sua missione.
Rispetto alle versioni di Matteo e di Luca, che con tutta una serie di citazioni bibliche ricordano le prove del popolo ebraico in diversi momenti della sua storia (a cui ci richiamano gli elementi simbolici: il deserto, il tempio, il regno) e con l’artificio letterario di uno spettacolare duello dialettico con il diavolo, le mostrano finalmente superate da Gesù, che può così iniziare ad edificare il nuovo mondo di Dio, il racconto di Marco è molto scarno di particolari e ci spinge a cercare altrove i contenuti della prova, in tanti contrasti dialettici con i farisei, ma soprattutto in quel drammatico momento di preghiera solitaria nel Getsemani in cui chiedeva al Padre: “Allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Da tutti i suoi momenti di prova, all’inizio come alla fine della sua attività evangelizzatrice, Gesù ne esce più motivato e determinato che mai, nella più completa fedeltà a Dio, in una piena libertà da se stesso, pronto per un amore totale.
La prova dunque non è un incidente di percorso, né l’essere tirati dentro a una sorta di battaglia tra spiritelli tentatori e angioletti difensori, ma è un passaggio obbligato della vita di noi credenti come lo è stato per lo stesso Gesù, un’occasione che si ripresenta in tanti momenti dell’esistenza per verificare la propria fedeltà al progetto di Dio, che non può essere mai data per scontata, per crescere nella fiducia in Lui, per lasciare la guida del proprio cammino al suo Spirito, per essere sempre più consapevoli che tutto ciò che ci separa o ci oppone a Lui (il “satanico” per definizione) ci fa correre il rischio della chiusura in noi stessi e di fallire gli obbiettivi più importanti della nostra vita.
Per questo nella preghiera del Padre nostro continuiamo a invocare Dio di “non metterci alla prova” (questo è il senso delle espressioni “non ci indurre in tentazione” come dicevamo prima e “non abbandonarci alla tentazione” come diciamo adesso), non per evitare le nostre responsabilità o vivere tranquillamente una fede che non costa nulla, ma per non venir meno alla nostra fedeltà e non vivere il nostro impegno quotidiano confidando solo sulle nostre idee o sulle nostre forze, ma nella confidenza e nel contatto continuo con Colui che può portarci sempre aldilà dei nostri momenti no.
Il brano di oggi ci offre ancora quelle che vengono riportate come le prime parole pronunciate da Gesù dopo la prova nel deserto: “Il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”. Pur nella precarietà e nella debolezza le persone non sono vittime di forze occulte o chiamate ad affrontare prove sovrumane, ma piuttosto a fare esperienza della vicinanza di Dio, a riporre in Lui la propria fiducia, e determinarsi per un deciso cambio di mentalità e di passo. Al contrario, se il credente si costruisce una religiosità a propria misura, rifugiandosi nella tranquillizzante ripetizione di pratiche scaramantiche per esorcizzare la paura delle proprie debolezze o dei presunti agguati di nemici invisibili, finisce per smarrire l’obiettivo fondamentale della propria vita: l’adesione al Vangelo che trasforma l’esistenza, unica realtà che merita una dedizione totale e una piena fedeltà.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
Sono uscito nel bene e nel male
SONO USCITO PER FARE DEL BENE
Carissimi fratelli e sorelle,
per qualche domenica prima dell’inizio della quaresima leggiamo con continuità il Vangelo di Marco. Lo abbiamo già fatto tante altre volte per cui almeno a grandi linee ne conosciamo il progetto narrativo, cioè i contenuti che questo scrittore vuole comunicarci e il suo stile, le caratteristiche della sua lettura di fede e il suo mondo culturale… la proposta del cammino da percorrere per essere coinvolti dal Vangelo e non rimanere solo dei lettori ma diventare discepoli del Signore Gesù. Queste cose vanno tenute sempre presenti se vogliamo che il testo ci parli ancora e possa essere connesso con la realtà così diversa da allora in cui viviamo e con le nuove prospettive e i nuovi scenari che ci si aprono davanti.
Quello che Marco vuole farci scoprire passo dopo passo è che Gesù è il Cristo, non nel senso del messia atteso per fare risorgere un regno ebraico, ma di inauguratore del vero Regno di Dio, è il Figlio dell’uomo venuto per servire a dare la propria vita in riscatto dei peccati, è il Figlio di Dio che ha con Lui una relazione unica della quale vuole far partecipi tutti gli uomini. La sua attività principale è quella di evangelizzare (il racconto della sua azione evangelizzatrice verrà appunto chiamato “vangelo”), cioè non solo predicare una dottrina o insegnare dei precetti morali, ma rendere presente e operante la parola autorevole ed efficace del Padre. Chi vuole dargli fiducia deve dapprima conoscerne la vera identità, indicata man mano dalle sue parole e dalle sue opere e poi camminare dietro a lui assimilandone lo stile di vita, divenendo cioè discepolo e quindi evangelizzatore a propria volta.
Ascoltando allora, passo dopo passo, domenica dopo domenica, il Vangelo di Marco prenderemo dimestichezza con il modo particolare con cui egli vuole portarci alla conoscenza sempre più profonda di Gesù: non con il resoconto dettagliato della sua vita o dei suoi insegnamenti, ma piuttosto offrendoci degli “indizi”, suscitando degli “interrogativi”, dal segno nella sinagoga di Cafarnao, nella prima giornata di “azione”, al terrore delle donne davanti alla tomba vuota… Chi è questa persona? Come mai ha una parola così autorevole? Come è possibile che si verifichino certe cose? Come mai muore così? Perché la tomba è vuota? Non esistono risposte logiche ed esaustive, dimostrazioni evidenti, sta alla fede, alla ricerca personale, ad una lettura capace di tenere insieme il reale con dimensioni più profonde, trovare il modo di orientarsi, perché dal modo di “capire” Gesù dipenderà poi l’impostazione di tutta la propria vita.
Proviamo, dunque, a lasciarci guidare da Marco in questo percorso già da queste prime domeniche, terza, quarta e quinta, in cui leggiamo il racconto della prima giornata di “azione evangelizzatrice di Gesù” sulle rive del lago e nel villaggio di Cafarnao… una giornata completa, ricostruita magari su quanto vissuto quotidianamente in un lasso di tempo ben più ampio, che si apre con la chiamata dei primi discepoli, poi la preghiera in sinagoga, il pranzo in casa di Pietro, la cura dei malati dopo il tramonto, il riposo notturno e la preghiera all’alba, la partenza per l’evangelizzazione di altri villaggi… Tenendo presente che un conto è la riflessione domenicale, l’omelia, e un altro è lo studio e l’approfondimento completo di un testo, cerchiamo per il momento di soffermarci su qualche elemento su cui fondare il nostro cammino settimanale.
Da notare, innanzitutto, come Marco avvia il racconto: l’azione evangelizzatrice di Gesù inizia in giorno di sabato, il giorno in cui Dio dovrebbe riposare e l’uomo con Lui, nella sinagoga, il luogo della proclamazione della Parola e dell’espressione comunitaria dell’adesione di fede… qui la parola di Gesù viene riconosciuta come autorevole e lascia addirittura sbalorditi il suo potere sugli “spiriti immondi” (secondo l’immaginifico linguaggio orientale)… più avanti impareremo a capire dove sta la novità del maestro nazareno: per lui l’amore per l’uomo è superiore al precetto del riposo sabatico e le parole di Dio non possono essere ridotte a prescrizioni legalistiche che se garantiscono la correttezza formale tuttavia non possono sostituirsi all’unica forma autentica di fede che è l’aprirsi totalmente all’azione dello Spirito. L’azione di Gesù inizia, dunque, laddove maggiore è la necessità di cambiamento e, cioè, il cuore stesso di una religiosità che svuota l’agire di Dio della sua forza innovatrice e imprigiona l’uomo all’interno di un sistema in cui l’obbedienza alle regole e ai detentori del potere sacro prende il sopravvento su un processo di liberazione e di promozione integrale della persona.
In giorno di sabato Gesù fa cose che non andrebbero fatte: guarisce e libera dai demoni, due azioni probabilmente simili tra loro se non identiche, ma mentre la prima esprime una pienezza di umanità nel prendersi cura dell’altro, la seconda esprime un azione propria di Dio: liberare l’uomo dai propri malesseri interiori e dalle proprie schiavitù. La suocera di Pietro che giace per la febbre, allo stesso modo in cui un morto giace nella tomba, viene presa per mano e rialzata da Gesù, allo stesso modo in cui si ridà vita a un morto, e la febbre se ne andò, allo stesso modo in cui davanti a lui si faranno indietro il tentatore e la stessa morte… La sera, dopo il tramonto (in quella lunga notte di dolore come dice Giobbe) ancora malati e indemoniati e ancora guarigione e liberazione: c’è aria di risurrezione, di vita nuova, di qualcosa di appena iniziato che non va gridato ai quattro venti, ma che bisogna lasciar agire lentamente e progressivamente, si è davvero solo ciò che si diventa ogni giorno di più, e solo quando una cosa arriva al suo compimento allora puoi apprezzare la grandezza anche di un umile inizio.
E ancora, una delle rare “foto” di Gesù: all’alba, da solo, in un luogo deserto, su una collinetta o in riva al lago, in preghiera… c’è da commentare o da contemplare?… verrebbe da chiedere: conosci l’esperienza di un’alba di preghiera che rende luminoso e pieno di colori il nuovo giorno?
“Tutti ti cercano”, dicono a Gesù gli Apostoli non appena lo rintracciano… “Andiamo altrove… a predicare anche là… per questo sono uscito” la sua risposta, quasi a dire: non sono venuto per essere cercato, per essere ammirato, per avere uno stuolo di followers e ricevere una marea di like, come gli strafighi di oggi, ma per cercare, per incontrare, per coinvolgere, per fare del bene e poi insieme andare ancora altrove, laddove ci sarà bisogno di noi. Un programma di missione a cui ai nostri giorni Papa Francesco cerca di renderci sempre più attenti e disponibili: non rimanere rintanati nelle nostre comunità, che possono trasformarsi in sinagoghe abitate dai demoni del narcisismo e dell’autocompiacimento, dell’accomodamento sulla poltrona del proprio prestigio e del proprio ruolo, della difesa delle proprie posizioni e della chiusura al nuovo o alle necessità degli altri… Andare altrove, non dove spingono le mode del momento o per la soddisfazione di un capriccio, ma la dove lo Spirito vuole condurci, pronti a uscire da noi stessi e pienamente disponibili secondo le nostre potenzialità a offrire quello che può essere di utilità al bene di tutti.
Se la vita è un soffio, come dice Giobbe e come potremmo concludere anche noi per la consapevolezza della nostra precarietà, forte come non mai in questo tempo di pandemia, è anche vero che se ci chiudessimo in noi stessi senza aprirci al soffio dello Spirito essa si trasformerebbe in un vero e proprio guaio, quello, come dice Paolo, di non essere partecipi del Vangelo, cioè di quella gioia immensa che riempie il cuore quando ci si spende per il bene degli altri.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
PESCATORI DI UMANITA’ 3 anno B
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa terza domenica del tempo ordinario iniziamo la lettura del Vangelo di Marco da quel famoso versetto 15 del primo capitolo che ci racconta l’esordio nella predicazione di Gesù «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Con una straordinaria capacità di sintesi il redattore di questo Vangelo è capace di condensare in una sola frase, la prima messa in bocca a Gesù, e per questo assolutamente unica, tutto il senso della sua predicazione. Una frase che non essendo rivolta a dei destinatari particolari, proprio per questo è rivolta a tutti coloro che l’ascolteranno da quel giorno in poi, come a dire che c’è un’altra esistenza che comincia per chiunque avverta che è arrivato il tempo di lasciarsi sfiorare dal Dio vicino e cambiare di conseguenza mentalità e stile di vita.
Domenica scorsa, avevamo letto il racconto del primo incontro con Gesù di un discepolo e dei due fratelli Andrea e Simone, nella rielaborazione di Giovanni, ambientato presso il fiume Giordano, dove già brilla la luce della Pasqua, della vita donata per gli altri (“ecco l’Agnello di Dio”) che motiva il mettersi al seguito del maestro di Nazareth. Oggi da Marco riascoltiamo lo stesso racconto in una versione probabilmente più vicina alla realtà storica: Gesù inizia in Galilea (terra di confine), a Cafarnao (villaggio di pescatori), sulle rive del mare (luogo di lavoro, ma anche di pericolo) a raccontare delle buone notizie su Dio: è venuto il momento dell’inizio del suo regno nel mondo, di cui potranno fare esperienza tutti coloro che hanno fiducia nelle parole di Gesù e vorranno mettersi in cammino dietro di Lui.
Un Vangelo, come sappiamo, non è una biografia ne un romanzo, ma un racconto abbastanza articolato in cui parole, avvenimenti e testimonianze vengono elaborati in base ad un progetto letterario, per cui ogni vangelo ha un suo stile particolare, e ad un progetto teologico: rivelare l’identità e la missione di Gesù, perché l’ascoltatore possa ricomprendere la propria identità, aprirsi al discepolato e portare avanti la propria missione. Pertanto, pur seguendo lo sviluppo lineare del racconto e ritornando mano mano sui temi fondamentali, davanti ad ogni pagina ci sentiamo invitati a porre e a farci delle domande, ad approfondire e comprendere meglio come anche a rileggere e rielaborare secondo quelle che sono le nostre competenze e sensibilità… c’è un vangelo scritto è c’è un vangelo che stiamo scrivendo (un quinto vangelo, come nel romanzo di Mario Pomilio), parole dette da reinterpretare, parole non dette da scoprire, comunque, parole che contano per impostare il proprio modo di vivere. Cosa ci dice, dunque, il brano di oggi letto in questa prospettiva?
Gesù inizia la proclamazione del “Vangelo di Dio” sostenendo che il “tempo è compiuto”, è finito cioè il tempo dell’attesa, inizia quello della vicinanza e della presenza di Dio… questo tempo di Dio mette fine a quello precedente, sia se vissuto nell’attesa fedele sia se vissuto nel conseguimento dei propri interessi… non è più il caso di tenere in vita quanto c’è stato fino ad oggi perché c’è qualcosa di profondamente nuovo che sta arrivando. Fa una certa impressione che immediatamente dopo l’inizio della sua predicazione i farisei e gli erodiani tengano consiglio per far morire Gesù (Mc 3,6): non sarà perché egli sosteneva che era finito il tempo del loro potere, delle loro dottrine, di quel loro modo di vivere la religione e soprattutto del loro modo di rapportarsi agli altri? E se applicassimo il pensiero di Gesù sulla restituzione a Dio del primo posto e la conseguente “fine del tempo di…” al cattolicesimo di oggi quante cose dovrebbero saltare sia a livello individuale, che comunitario? Saremo mai capaci di un ricominciamento così radicale come lo sognava Gesù e come i tempi di oggi lo richiedono e di passare il confine dell’autocompiacimento nostalgico e dell’arrocco nelle posizioni raggiunte?
Gesù incalzava: “convertitevi e credete nel Vangelo”. La prima lettura indirizza la nostra comprensione della parola conversione presentandoci quella degli abitanti di Ninive (la città simbolo della guerra e della violenza) che in seguito alla predicazione del profeta Giona digiunarono e si vestirono di sacco ottenendo da Dio il perdono. Prima però di tirare una conclusione di tipo moralistico che la conversione sia pentirsi dei propri peccati, occorre tener presente che chi non si converte è proprio il profeta Giona che ritiene la ‘giusta punizione’ più importante della misericordia e della compassione e che Dio rieducherà tramite il segno della pianta di ricino seccata. Ed è proprio questo il “cambio di mentalità” e di passo che Gesù chiede nella sua predicazione: il Dio misericordioso e compassionevole si è fatto vicino, si fa presente motivando la sua missione e agendo attraverso di lui, e chiede agli uomini di abbandonare le vecchie logiche di vita basate sulla bramosia di potere e di ricchezza, sull’arroganza e il desiderio di visibilità, sull’indifferenza e l’abbandono al proprio destino dell’altro, soprattutto nei suoi momenti di debolezza e di perdizione, per credere nel Vangelo, nell’annuncio che ti cambia la vita: Dio ti vuole bene ed è l’unico che può fare di te una persona splendidamente umana e felice.
Per questo Gesù non può fare altro che “chiamare”, cioè “coinvolgere”, nel senso di far arrivare le persone a questa concezione di Dio, e provocarle a giocarsi la vita dietro a lui, cioè come lui: “vide Simone e Andrea… e disse loro: ”venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”… vide Giacomo e Giovanni… e subito li chiamò… ed essi subito lasciarono reti, padre e garzoni e lo seguirono… andarono dietro a lui”. E’ straordinario questo modo di Marco di raccontare con tocchi rapidi ed essenziali quel momento decisivo che cambierà per sempre la vita di quegli uomini: una chiamata arrivata come un vero e proprio colpo di fulmine e una risposta altrettanto fulminea data sulle rive di quel lago, sviluppata camminando dietro a Gesù, testimoniata annunciando il Vangelo a tutti, culminata con il dono totale di se.
Mi colpiva in questi giorni, leggendo l’ultimo libro di P. Giulio Albanese “Libera nos Domine” la citazione di un testo di Don Tonino Bello: “Il cattolicesimo convenzionale è per definizione un cattolicesimo svuotato di cristianesimo, un “sacramento incompiuto”, una forma religiosa esteriormente cristiana ma senza passione missionaria… un bacio senza amore”. E non è forse vero che molti oggi si dicono appartenenti alla religione cattolica senza aver provato il brivido della “chiamata”, più per tradizione che per convinzione, sempre alla ricerca di devozioni che plachino le loro paure e compensino le loro labilità, piuttosto che decidersi prontamente all’avventura del discepolato? Ci fa bene rileggere le parole di Papa Francesco al numero 3 della Evangelii Gaudium: “Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta”, e al numero 8: “Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità… Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?”.
Di fronte, dunque, al rischio di vivere anche da bravi parrocchiani un’esperienza religiosa insignificante, vuota di vocazione, di discepolato e di missione, lasciamoci riconquistare dal Dio di Gesù, per lasciarci guidare dalle sue parole ed essere trasformati in appassionati “pescatori di uomini”, cioè persone capaci di tirare fuori dal mare della solitudine e dell’insignificanza, della povertà e del disagio, del vuoto di valori e di umanità i fratelli e sorelle di cui ci prendiamo cura.
Buona settimana, fra’ Mario.